Contemporaneo è chi sa accordarsi col presente, interpretandolo nel momento in cui le cose accadono, chi oltrepassa la contingenza dell’essere qui e ora per imporsi come demiurgo di un discorso sempre vivo. Si può parlare di presente allacciandosi alla cronaca, osservandola mentre avviene ed ambisce a farsi storia, o individuando nel passato una chiave di lettura, un presagio oscuro, un’inquietudine, una suggestione. In questo senso, Alberto Grifi fu estremamente, tenacemente, violentemente contemporaneo.

Dopo l’esperienza di Anna (1975), il fluviale racconto della convivenza tra il coautore del film Massimo Sarchielli e una sedicenne tossicodipendente, Grifi seppe davvero cogliere l’aria del ’77 sin dall’anno precedente, quando il suo videoteppismo militante lo portò a Parco Lambro, dove la rivista Re Nudo organizzava l’annuale festival del proletariato giovanile. In poco più di un’ora scarsa, che condensa un girato di più di trenta, Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro espone le contraddizioni e le problematiche di una stagione.

Nella contrapposizione, tutta interna alla sinistra, tra ricchi e poveri, Grifi trova l’opportunità di documentare il prematuro tramonto di un nuovo sol dell’avvenir e l’aborto del desiderio di non essere come tutti. A distanza di quarant’anni, Parco Lambro rivendica un carattere di unicum filmico che esalta ancor di più la natura effimera della proposta dentro la protesta; e forse proprio per questo Grifi, che trasfigura l’attualità in documento storico, diventa autore di qualcosa che gli appartiene nel momento in cui è l’unico sguardo audiovisivo ammesso dagli organizzatori. La sua è una visione empatica con l’opposizione al sistema, in cui ogni atto, dall’esproprio dei gelati venduti a caro prezzo alle brutalità subite dai tossici, è parte di uno psicodramma collettivo sull’impossibilità della rivoluzione. Film-saggio, parabola socio-economica, dramma generazionale, Parco Lambro doveva essere il film-concerto ed è, invece, puro Grifi, svincolato (ostile anche ai calcoli degli extraparlamentari) e fuori dall’industria (a parte alcune proiezioni speciali nelle sale, è andato in onda per la prima volta nel marzo di quest’anno su Iris).

Ma Grifi trova il suo ’77 anche in un passato che, riemergendo dal nulla, si rivolge ad un eterno presente. È il caso de Il preteso corpo, found-footage di un materiale dell’epoca fascista, rinvenuto in un mercatino a Milano, che documenta la sperimentazione di un farmaco e i terribili effetti collaterali su alcune persone affette da disturbi psichici. Un ready-made non manipolato, che conserva le caratteristiche sonore (il muto) e visive (una pellicola rovinata), un viaggio allucinato ed allucinante abitato da corpi asserviti, abusati, deprivati della loro identità per immolarsi alla medicina e al capitale.

Quando giustappone la simulazione all’attuazione della pratica d’iniezione del farmaco nel cranio, quasi non si distingue la differenza tra le due situazioni. Come in altri, inconsueti, dissonanti lavori del periodo (Il manicomio – Lia, Dinni e la Normalina, Gli autoriduttori al convegno di antipsichiatria a Milano), il cinema politico ed antagonista di Grifi ragiona ancora – e fa ancora ragionare – sull’essere marginali e sottomessi ai dettami del sistema, strappando alla logica del capitale pezzi di vita in fieri per riflettere sulla follia, contestare l’eliminazione del dissenso, ripensare il corpo sociale.

Lorenzo Ciofani