Trentun anni dopo l’esordio a Cannes – in vista di una retrospettiva integrale programmata per il 2018, decennale dalla scomparsa del regista – torna in veste restaurata l’opera che inaugurò la prassi della coproduzione franco-egiziana nella carriera di Youssef Chahine, al fianco del produttore Humbert Balsan. Di origini alessandrine, il maestro studiò in patria presso istituti francesi e inglesi, proseguendo gli studi universitari in California: Frèderic Bonnaud, dal gennaio di quest’anno direttore della Cinématèque Française, responsabile del restauro, lo ha definito “un intellettuale arabo dalla cultura universale”, e “il più grande cineasta egiziano, libero e cosmopolita, odiato da tutti i poteri e adulato dal popolo”.

Adieu Bonaparte riflette sensibilmente una lacerazione che è forse il contraltare ineluttabile di ogni profondo afflato internazionalista, ed è triste non rimanere del tutto sorpresi che a poco meno di 200 anni dalla Campagna d’Egitto – epicentro storico della narrazione – la pellicola sia stata tacciata di antifrancesismo da più di un giornalista transalpino. Diversi furono anche gli accademici che non si peritarono di interrogarsi sul film, al di là dei suoi (volutamente) modesti intenti filologici, inchiodando lo sguardo sul dito, invece di capire dove questo volesse puntare. Adieu Bonaparte provoca sapientemente, senza risolversi linearmente nell’elargire giudizi storico-politici, e soprattutto con esiti – dopo il 2011 lo si può affermare con ancor maggior convinzione – di grandissima attualità; è una rappresentazione strabordante della guerra, che ricerca in una fluida caoticità un tessuto connettivo per l’atomizzazione dei punti di vista, nel disordine un affresco complesso delle ambivalenze dei rapporti tanto fra conquistatori e conquistati, quanto in seno alle stesse fazioni nazionali.

Bonaparte, non ancora “Napoleone”, non è uno stratega: se esiste una tattica, è perlopiù speranza riposta nel caos e nel potere persuasivo della violenza, sicumera di ogni colonizzatore conscio della propria superiorità militare. Il condottiero è un sognatore a cavallo fra il fanciullesco e la savanterie, un bambino sulla soglia dell’autismo che passa gran parte del film a preparare fra sé e sé orazion picciole di un certo fascino, nella pompa della loro vacuità; complice lo sguardo di Patrice Chéreau, che ammalia e si perde in un altrove tanto più sconcertante, per il suo aggettare su un nihil che non sembra essere neppure volontà di potenza: quasi un indiamento. Una marionetta posseduta dal destino? Il destino, se è presente, può essere allora coazione a ripetere, assecondando la vertigine nichilista nascosta dietro il pretesto del patriottismo e della missione civilizzatrice – ecco il vero significato, quasi orwelliano, di Liberté, Égalité, Fraternité.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”; e allora tanto vale essere re in questo deserto, rifondando ogni volta la civiltà lavandone gli antichi monumenti nel sangue? Vi è forse un’altra via, più faticosa nella sua pervicace esigenza di attenzione, nella posa di ogni mattone – ed è il lavoro culturale: posizione incarnata non senza ambiguità dal generale Caffarelli. Se l’Illuminismo è già morto al momento dello sbarco ad Alessandria, forse la parte più riposta della sua anima è redenta nell’amore per i due ragazzi egiziani, che supera infine la farsa romantica elevandosi a una dimensione universale. Soltanto facendo di sé un apolide, il generale riesce a essere platonicamente ricambiato – da Aly, per metonimia, attraverso i versi di Corneille, e da Yehia per intuizione creaturale, un “Pourquoi?” mormorato in mezzo ai poveri resti del laboratorio francese, nel mezzo della rivolta del Cairo. Come scrive un poeta tedesco nostro contemporaneo – “Esser al bando ed il più dolce esilio per stolti e geni/ è l’amour. [..] / Molto prende, / molto elargisce. Ma quel che conta: insegna/ che tu sei una parte. E ami solo il tutto.”

Thi Hòa Evangelisti