Altro film Universal, del periodo Laemmle, diretto da Edward L. Cahn, Afraid to Talk è un gangster movie atipico, che riduce al minimo l’azione e per concentrarsi sulla distanza incolmabile tra cittadini e potere, che raccoglie indifferentemente criminali e rappresentanti delle istituzioni. Il giovane fattorino Ed Martin (Eric Linden) rimane ferito durante un omicidio tra gangster. Le prove sembrano schiaccianti nei confronti del boss Skelli, che tuttavia ha recuperato dei documenti che incastrano per connivenza e corruzione molti dei pubblici ufficiali coinvolti nel caso. Ed diventa allora un perfetto capro espiatorio.

L’ambientazione urbana si suddivide in interni kafkiani ed esterni simbolici: sui grattacieli scorrono lampeggianti gli aggiornamenti di cronaca sensazionalistici, con funzione di sintesi per lo spettatore. La città è ostaggio delle alleanze tra politica e crimine organizzato, tutti appartenenti ad un unico fantomatico Partito che arricchisce e protegge lo status quo ed espelle chi si fa prendere dalle crisi di coscienza.

Ai sotterfugi dei potenti si contrappongono le reazioni disilluse dei cittadini: c’è la Depressione e le elezioni sono imminenti, ma nessuno sembra credere davvero ai proclami del candidato Manning, neppure chi si presta per soldi alla campagna elettorale. Ed viene raggirato e sballottato da casa, al carcere, all’ospedale: visivamente appare come un manichino esamine ferito, poi picchiato e quasi “suicidato” dalla violenza del sistema. A un certo punto persino negli sgherri di Skelli appare un briciolo di umana pietà, ma non nel procuratore e i suoi colleghi, che procedono ghignanti verso la sistematica eliminazione del problema. L’indistinzione tra loro e i criminali è sottolineata dal passaggio di mano della fidanzata del boss, dalla lussuose cene d’affari con obiettivi comuni e fiumi di alcool in barba al Proibizionismo. Il contrasto è anche generazionale: ai giovani arrivisti e senza scrupoli si oppongono i più anziani – il giudice integerrimo, il medico, l’avvocato – che di fronte alle infamie dei colleghi prendono le distanze, si ritirano, fanno gruppo e infine accorrono in aiuto del povero bellboy.

Afraid to Talk bilancia le molte sequenze parlate con una messinscena e una fotografia, di Karl Freund, che amplificano il senso di onnipotenza degli uni e di impotenza degli altri. Il carcere è ancora il luogo in cui sottolineare con ombre taglienti l’isolamento e lo schiacciamento del singolo che da solo non ha alcuna possibilità di salvarsi. E anche con la fortuna di un last minute rescue, il cinico finale suggerisce che il marcio può mutare e adeguarsi, impossibile da debellare.

Chiara Checcaglini