“Je n’éprouve pas d’intérêt réel pour ce qui est exceptionnel”: così ebbe a dire Jacques Becker a Truffaut e Rivette, nella prima delle celebri interviste che i “giovani turchi” dedicarono ai loro auteurs-feticci sulle pagine dei Cahiers du cinéma. Becker era certamente uno di loro – l’unico, insieme a Bresson, ad essere risparmiato dall’ignominiosa etichetta di “qualità francese”, e per Truffaut, che amava stilare elenchi e classifiche, Casco d’oro stava in cima alla lista dei suoi film migliori.   

L’interesse di Becker per l’ordinario e il quotidiano parte in Casco d’oro già dal soggetto, che narra la tenera storia d’amore di una prostituta, soprannominata “casco d’oro” per la biondissima chioma, e un giovane falegname. La relazione viene osteggiata dai protettori di lei e finisce in tragedia. Benché ispirata a fatti di cronaca di fine Ottocento, il riferimento è quello della grande narrativa popolare e del miglior romanzo d’appendice, in cui melodramma e tragedia invadono anche i quartieri di periferia, dove la città sconfinava nella campagna.

Più che i salotti e i grands boulevards, la belle époque che Becker mette in scena è fatta di frutteti, staccionate e barche a remi: il film sembra così ambientarsi in un passato bucolico e quasi mitico, a metà tra Une partie de campagne (Becker ha fatto il suo apprendistato come assistente alla regia di Renoir) e l’iconografia impressionista – la scena d’apertura, con le sue fluide carrellate, sembra un grande tableau vivant del Bal au moulin de la Galette.

Il nostalgico motivo Le temps des cerises scandisce una vicenda piuttosto essenziale che, più che all’intreccio, punta alla resa psicologica dei personaggi. Anche il talento visivo di Becker, autore di una messa in scena ricercata e raffinatissima – gli articolati movimenti di macchina, l’uso sapiente della profondità di campo – è sempre al servizio del realismo e della profondità psicologica, che costituiscono forse la cifra più personale del cineasta francese.

Mosso da uno sconfinato amore per i suoi personaggi (e abilissimo nella direzione degli attori), Becker aveva espresso il desiderio “che i suoi personaggi continuassero a vivere oltre lo schermo, tra una scena e l’altra, o prima del film”. L’aspirazione di Becker sembra trovare pieno compimento, e se Casco d’oro conserva ancora la sua vitalità si deve proprio ai suoi stupefacenti personaggi: i ruoli minori, ognuno dotato di una propria dignità, i piccoli criminali dei bassifondi, ritratti con umana empatia, e ovviamente Casco d’oro, che regala ad una Simone Signoret in stato di grazia forse uno dei più bei ruoli femminili del cinema francese degli anni Cinquanta.

Sospeso tra classicità e modernità, tra la generazione del cinéma de papa e quella dei “giovani turchi”, in Casco d’oro Becker coniuga lo spiccato gusto per la ricostruzione d’epoca con una naturale propensione alla resa dei personaggi, e mentre stabilisce con essi un rapporto di intima comprensione dà una grande prova di cinema e di umanità.

Maria Sole Colombo