Der müde Tod (nonostante il titolo) è un capolavoro che riprende vita grazie a un restauro – senza il quale sarebbe stato inconcepibile. Di un film che nel colore trova una delle sue chiavi espressive e narrative, a partire dalla distinzione fra scene diurne e notturne, sono sopravvissute infatti solo copie in bianco e nero, prive di indicazioni per il viraggio; per ovviare si sono cercati, ove possibile, riferimenti nel cinema coevo che potessero fungere da convenzione. Perduta è anche la colonna sonora, sebbene quasi non paia vero, ascoltando quella composta ex novo da Cornelius Schwehr. Ma è proprio nei luoghi in cui ci si è potuti affidare unicamente alla sensibilità dei curatori che risulta tanto più prezioso l’operato della Murnau Stiftung, filigrana che riesce a farsi invisibile al punto di restituire la felice illusione – pura serendipità – di una prima visione. Quasi un’anamnesi, dacché esiste l’arabesco della narrazione: immagine assai cara al Romanticismo tedesco, la cui anima Lang avrebbe voluto esprimere attraverso questo “Lied popolare [Volkslied]”. Popolo, spontaneità, genio e natura, costellazione di stelle fisse nell’orizzonte culturale che fu il mito fiorito – il blaue Blume di Novalis – da quelli che furono avvertiti come i primi sintomi del disagio della civiltà, prima che si potesse immaginare la Prima Guerra Mondiale.

Ma è in realtà cosa nota quanto poco di spontaneo ci sia nella consapevolezza letteraria dell’opera cosiddetta popolare, mai accidentalmente assurta a elemento fondativo di una cultura – dall’epos omerico ai Canti di Ossian, fino alle fiabe dei Grimm. E al cinema. Proprio alle atmosfere de Il padrino morte si ispira probabilmente la visione della cattedrale, dove si stagliano come canne d’organo le candele delle vite umane; non a caso, cuore del film e delle sue virtualità teoriche e metanarrative, un altrove rispetto al continuum del flusso storico-cronologico, eppure ad esso legato da vincoli di causa-effetto – in una delicata riflessione sulle possibilità di una metafisica della storia umana, innervata dalla tensione dialettica fra amore e morte. Il richiamo alla tradizione risiede proprio nell’apparente semplicità della struttura e dei personaggi, tipi da Jedermann e teatro espressionista: in realtà, linearità e simmetria nascondono l’arabesco, o più propriamente lo svelano, dipanandolo in una sintesi fra fiaba e allegoria che restituisce tutta la sua pregnanza alla metafora tessile dell’intreccio di trame.

Mentre seguiamo lo svolgimento, “con la consapevolezza che si tratta di una storia che ci viene narrata, il film orienta la nostra attenzione verso i dispositivi che ne sottendono la struttura e verso processi extradiegetici quali la scelta degli attori e l’organizzazione narrativa. La divisione in sei rulli cui corrispondono altrettanti ‘versi’ configura il film come un pezzo pregiato di storytelling. [..]Le analogie strutturali e narrative tra le tragiche storie d’amore invitano lo spettatore a interpretarle come varianti di una stessa trama, e creano una sensazione di ineluttabilità mediante la ripetizione della medesima dinamica narrativa e i finali identici” (Tom Gunning).

La Morte è stanca perché Lang vi intuisce una segreta compassione per la sofferenza umana; e forse persino l’inconfessabile timore che sia tardi – che sia sempre stato troppo tardi. L’orologio è un’immagine cruciale, emblema del Destino-macchina di cui nessuno conosce l’orologiaio; eppure, mentre scocca la mezzanotte e il meccanismo si ferma, i due amanti ricongiunti nella morte si allontanano verso l’ignoto, mano nella mano. Allora, alimenta una speranza inspiegabile il verso del Cantico dei Cantici, soglia dell’epifania che eleva l’umano al sovrumano: “forte come la morte è l’amore. L’adesso che, come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide rigorosamente con la figura che la storia dell’umanità fa nell’universo”, scriverà Walter Benjamin…

Thi Hòa Evangelisti