L’ampia retrospettiva dedicata a Marie Epstein si è aperta ieri con La chute de la maison Usher, uno dei film più acclamati del fratello Jean Epstein. Regista, sceneggiatrice e pioniera del cinema, Marie viene omaggiata questa volta per il suo infaticabile lavoro di archivista alla Cinémathèque Française: la pellicola proiettata ieri al Lumière è infatti una copia in 35 mm del 1984, frutto di un lavoro di restauro curato personalmente da Marie. Questa fu la prima pellicola che, per essere adattata ai proiettori moderni senza alterare il ritmo originale del film, venne trasposta da 18 fotogrammi al secondo allo standard sonoro di 24 fotogrammi al secondo, secondo un procedimento allora sperimentale definito stretching (lo stretching prevede che alcuni fotogrammi vengano stampati due volte, “rallentando” così lo scorrimento della pellicola nel proiettore). Il procedimento è stato oggetto di ampie discussioni, ma senza dubbio testimonia il forte spirito d’innovazione di Marie Epstein, oltre alla sua prontezza nel raccogliere le sfide della conservazione e del restauro cinematografico che sono ancora oggi al centro di accesi dibattiti.
Se tale questione può sembrare un’oziosa faccenda filologica, non c’è probabilmente nessun film in cui essa rivesta un ruolo tanto cruciale come ne La chute de la maison Usher: il film, tratto da un racconto di Edgar Allan Poe, nasconde infatti dietro alla classica vicenda della casa infestata un piccolo saggio di teoria del cinema, nonché la formulazione più compiuta del concetto di fotogenia già elaborato da Epstein in Bonjour cinéma.
Nella riflessione epsteiniana il tempo è uno dei nodi teorici fondamentali, e diventa in questo film il centro di un’efficace sperimentazione linguistica: l’uso del ralenti e dell’esposizione multipla testimoniano una ricerca di scomposizione del movimento, il cui fine ultimo è quello di creare una temporalità anomala e straniante. In questa dimensione perturbante persino la morte non è un evento irreversibile, e in una delle scene più efficaci del film la protagonista Madeline, morta per essere divenuta immagine (un ritratto), torna dall’oltretomba per ricongiungersi con il marito pittore che l’aveva uccisa con la sua visione.
Per Epstein il tempo è inafferrabile e solo il cinema è in grado di far accedere lo spettatore all’esperienza altrimenti inconoscibile del presente. Il cinema, “arte ciclope” in cui vige il primato assoluto della visione, è luogo di una conoscenza sensoriale dell’universo. Fumoso, visionario e a tratti sconcertante, come le teorie di Epstein, La chute de la maison Usher riflette questa concezione profondamente personale del suo autore, e vibra di un fascino spettrale. Se oggi possiamo vedere e rivedere questo film, il merito è anche della passione e della dedizione di Marie Epstein.
Maria Sole Colombo
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Sala Mastroianni gremita, con tanto di cinefili accampati a terra, pur di non perdere la proiezione in 35mm de La Chute de la Maison Usher (Jean Epstein, 1928) nella versione, curata da Marie, sorella e collaboratrice del regista. Il film di Epstein si serve dell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe, ma ne prende anche narrativamente le distanze andando ad ampliare la storia traendo spunto anche da altri lavori del celeberrimo scrittore americano. Pare che Luis Buñuel, qui assistente alla regia, abbia litigato con Epstein proprio in merito alla decisione di quest’ultimo di volersi prendere delle libertà rispetto al testo originale.
La scelta del regista nel voler indagare più a fondo la psicologia dei personaggi, lasciandoli spesso in balia di se stessi e degli eventi che li coinvolgono, preferendo quindi soffermarsi sulle loro azioni e visioni scatenate da ossessioni e ostiche situazioni, va inquadrata in un’ottica che vuole il film come strumento atto a turbare nel profondo lo spettatore. Ne La Chute de la Maison Usher vi è una ricerca particolarissima nell’uso degli ambienti interni: il castello nel quale si svolgono le vicende è di per sé un protagonista della storia, con le sue tende che sembrano respirare, finestre che fungono da occhi di visioni allucinate, stanze che sembrano collassare su se stesse, per non parlare di tutto il carico ed il peso del passato che gravano sulla vita, o quel che ne rimane, di Roderick Usher. È un film che della morte e dell’oblio fa un ritratto angosciante e solenne, privato di ogni elemento eccessivamente legato ai sentimenti.
Nella versione sonora de La Chute de la Maison Usher, datata 1979, sviluppata da Marie Epstein a partire da un progetto abbozzato già dal fratello Jean, i rumori e le musiche arricchiscono le atmosfere spettrali del film. Il sibilo del vento, il rumore dell’acqua, la corda che si rompe di una chitarra, non solo spezzano il silenzio di un film privo di dialoghi, essendo una pellicola muta, ma rendono ancora più inquietanti i brani strumentali.
Simone Tarditi