“A man and a train, a train and a man/ They both tried to run as far/ And as fast as they can/ But a man’s not a train and a train’s not a man/ A man can do things that a train never can”. Si spalanca sulle note di A Man and a Train, ballata interpretata dal re del country Marty Robbins, Emperor of the North Pole, inconvenzionale road movie immerso negli anni della grande depressione.

In un Nord America zeppo di rottami e discariche, dal gusto lontanamente post apocalittico, bande di vagabondi hanno fatto del viaggiare a scrocco sui treni una vera e propria arte. Lo sa bene Numero Uno, re degli underdog che deve il suo titolo all’abilità con cui riesce a passare di convoglio in convoglio senza mai lasciarsi catturare. Ultima sfida da superare è un viaggio sul temuto 19, condotto dallo spietato capotreno Shack. L’impresa del Re dei vagabondi rischia di fallire quando si unisce a lui il giovane Cigaret, senzatetto arrogante di buone speranze.

Il mondo va a rotoli, gli uomini tornano nelle foreste e il furto è tollerato: quale scenario migliore in cui far esplodere la brutalità tipica delle pellicole di Aldrich? Martellate, pugni e colpi d’ascia abbondano, a ricreare un’atmosfera cruda dove, per raggiungere il proprio obiettivo, tutto è permesso. Curiosamente, nonostante la crisi imperante, la violenza non è strumento di sopravvivenza, ma unica modalità di un viaggio fine a sè stesso: Numero Uno è già una celebrità tra i derelitti della Grande Crisi, e Cigaret ha la testa piena di idee confuse e sogni adolescenziali. Lo stesso sadismo con cui Shack impedisce ai vagabondi di salire sulla sua locomotiva, arrivando a contravvenire le regole delle stazioni e uccidere, non è motivato da ragione alcuna.

E’ qui che Emperor of the North Pole si tinge di sfumature esistenziali; crollata la fiducia nella società tradizionale, l’unico modo per continuare a vivere è aggrapparsi ai propri piccoli obbiettivi, per sciocchi che siano. A rafforzare la bolla di instabilità in cui i personaggi sono immersi vengono le incertezze di una sceneggiatura claudicante, in cui le azioni si rincorrono inutili sino al duello finale, e un montaggio balbuziente, capace di scaricare l’inerzia di molte sequenze d’azione con tagli inopportuni. Dai treni si cade e si risale, ci si perde e ci si ritrova, in una sequenza di azioni ricorrenti (assalto al treno, caduta, dialogo) su cui torreggiano la faccie di Lee Marvin, vagabondo rude ma umanissimo, e il grugno di Ernest Borgnine, perfetto capotreno psicotico.

Padre scapestrato di un capolavoro come Corsa a Doppia Corsia, Emperor of the North Pole mette in scena, con enfasi sanguigna, la lotta disperata di tre uomini per sfuggire al nulla che li circonda.

Grergorio Zanacchi Nuti