Presentato per la prima volta in Europa dopo un minuzioso restauro, ritorna nelle sale del Cinema Ritrovato King of Jazz in una veste che rende giustizia al film in Technicolor due colori che le platee videro nel 1930. Un’operazione compiuta in collaborazione tra la Universal e il MoMA, partendo dalla scansione dei negativi originali e dalla traccia sonora pre-registrata. Produzione imponente voluta da Carl Laemmle Jr. e diretta da John Murray Anderson, King of Jazz (costato circa 2 milioni di dollari) anticipa per certi aspetti alcune tendenze che diventeranno tipiche dello stile di Busby Berkely, pur non collocandosi in nessun filone specifico. Sotto questo punto di vista siamo di fronte a un film intrigante, strano quanto contraddittorio. Intreccio di numeri musicali, coreografie alternati da blackouts (sketch comici), King of Jazz ruota attorno alla figura del celebre direttore d’orchestra Paul Whiteman: il re del jazz.

Figura interessante quella di Paul Whiteman, che ha contribuito in modo considerevole all’ibridazione tra la musica black e white facendone un prodotto mainstream, pop. Infatti il jazz di the King of Jazz è quello descritto da Fitzgerald e Van Vechten negli anni Venti, una musica epurata dalle componenti nere più sanguigne. Non a caso nel film gli unici riferimenti alla musica afro in relazione al “jazz” sono caratterizzate da stereotipi razzisti, in particolare nella sequenza animata iniziale in cui Whiteman viene incoronato King of Jazz proprio nell’Africa Nera.

Ma nonostante i costumi luccicanti e i motivi allegri, tutto il film è intriso di un’aria di decadenza a tratti spettrale. Siamo nel 1930 in piena Depressione, i Roarin’ Twenties sono finiti e sequenze come Monterey o Happy Feet hanno già in nuce quella necessità di esorcizzare il reale che ritroveremo in musical successivi. Solo per un momento, quando nella sequenza di My Bridal Veil la maestosa scenografia art déco si popola di spose fantasma, ci è permesso di aprire gli occhi. Tutt’altro tono invece per il giovane Bing Crosby che, insieme a The Rhythm Boys fa qui la sua prima apparizione cinematografica.

Da non dimenticare la straordinaria sequenza della gershwiniana Rhapsody in Blue, qui fotografata in turchese a causa del primitivo Technicolor. Proprio questa resta l’esempio più vivo della modernità di allora e in particolare della natura eterogenea della musica americana più dell’adulatoria sequenza finale in cui, un Paul Whiteman demiurgo, mescola le culture musicali (tranne quella afro) creando un melting pot chiamato “jazz”. Di certo si tratta di un eccesso d’orgoglio nazionalpopolare e di un’idea di cultura ormai retrograda, anche se a tratti naïf, tuttavia King of Jazz è un documento straordinario che è in grado di raccontare ancora in modo luminoso le contraddizioni di un’epoca che si era appena conclusa.

Federica Marcucci – Associazione Culturale Leitmovie