Marlon Brando, Sophia Loren e un transatlantico: gli ingredienti di un insuccesso esplosivo. L’ultimo film di Chaplin- qui regista, interprete e compositore- è l’epilogo in tono minore alla carriera di uno dei più grandi attori del Novecento. Durante uno scalo ad Hong Kong sulla rotta per l’America, il diplomatico Ogden Mears fa conoscenza di tre bellissime donne, contesse russe espatriate che si mantengono facendo le accompagnatrici. L’intraprendente Natasha è decisa a scappare negli Stati Uniti e, approfittando di una distrazione di Ogden, si introduce nella sua cabina. Quando l’uomo la scopre, comincia un braccio di ferro tra l’integrità del diplomatico, preoccupato per la sua immagine pubblica, e la cocciutaggine della donna.
Tristemente, la pellicola tradisce tutte le sue premesse più alettanti, a partire dai protagonisti. Non è certamente la prima volta che Brando divide le scene con una diva: in Un Tram che si chiama desiderio, l’impatto emotivo è in gran parte debitore della tensione drammatica tra l’attore e Vivien Leigh. Questa volta però Brando non deve litigare, e la sua fisicità imponente gli si rivolta contro. Ogden è un burocrate, e sguardi da duro e parole masticate non gli si addicono: la mimica che faceva grande Stanley Kowalski rende il diplomatico legnoso e anaffettivo, del tutto incapace di tenere dietro alla verve della Loren. Perfettamente a suo agio nell’atmosfera in bilico tra love story e commedia, la donna ruba completamente la scena, sottolineando impietosamente l’inadeguatezza del divo.
L’evidente distonia della coppia principale è acuita ulteriormente da innumerevoli gag di matrice slapstick, a cui mal si integra la rigidità di Ogden. Se le irresistibili sequenze de Tempi moderni o La febbre dell’oro sono lontanissime, non è però solo colpa degli interpreti: il ritmo, indispensabile per costruire l’effetto comico, è diluito dalla ripetizione fino quasi a perdersi. Il campanello della suite squilla fin troppe volte, e i sobbalzi del cast si autodenunciano rapidamente come artificiosi. Ultima nota dolente è la struttura dello script, con un incipit da commedia che si arena nella gora delle storie d’amore sfumate di dramma. Dove già la prima parte non godeva certo della frizzantezza dei classici di Charlot, da quando Brando, impacciatissimo, accetta i suoi sentimenti per la Loren, l’intreccio perde il suo mordente e si arena su timori piccolo-borghesi: come confessare alla moglie di nuova fiamma?
E’ un Chaplin scolorito quello che ci restituisce la luminosità del Technicolor, incapace parimente di reinventarsi o riproporre lo stile che lo ha reso grande. Invecchiato già alla data d’uscita, La Contessa di Hong Kong appare testimonianza di una sensibilità ormai estinta, il fragile umanesimo capace di credere nell’amore puro e nelle capacità di Brando come comico slapstick.
Gregorio Zanacchi Nuti