“One might call Marnie a sex mystery. But it is more than that.” Con un ammonimento sornione esordiva nel 1964 il trailer della pellicola – voce narrante nientemeno che Hitchcock stesso! – prima di zoomare con occhio clinico sul ganglio scoperto della suspense: “due interessanti esemplari di essere umano”. Questa volta, infatti, non c’è MacGuffin: il mistero è radicato nella stessa Marnie e nell’amorosa perversione dell’uomo che vorrebbe guarirla – arrivando a possederla. Ma se veramente è possibile leggere il film come studio in vitro del desiderio, specimen sarà anche lo spettatore di fronte al transfert indotto dalla regia. La suspense, oltre che nerbo della trama, è naturalmente meccanismo della messa in scena, mai fine a sé stesso o al puro intrattenimento. La scena del furto da Rutland’s invita la partigianeria del pubblico per Marnie; ancor più, le scarpe che scivolano dalla tasca del cappotto fungono da correlativo oggettivo di un’altra caduta, quella della protagonista. La tensione si smonta completamente, davanti alla rivelazione della sordità della signora delle pulizie, mettendo in luce come la sospensione si configuri, in definitiva, quale riflessione sull’ ansia di consumo dello spettatore, insita nel desiderio di assistere alla rappresentazione del crimine: lo spettacolo colma il desiderio di vedere. In questo risiede la prorompente attualità di un film che – ironia della sorte – si rivela talmente ben confezionato da rischiare ancora oggi di esser frainteso, proprio e persino da un pubblico ormai smaliziato davanti agli usi e abusi di psicologia e psicologismi.

Nella lezione tenuta presso l’Auditorium Pasolini, Jean Douchet ha svelato in modo illuminante come la presenza della psicanalisi sia soltanto in apparenza ingenua didascalia, invecchiata con discutibile grazia. Di nuovo, è piuttosto di uno spietato adattamento al consumismo americano che si tratta: la risibile pretesa di spiegare la complessità umana per parole chiave e meccanici botta risposta fra cause ed effetti, come sottolineato ironicamente da Marnie durante la seduta improvvisata da Mark (“You Freud, me Jane?”). Questa psicanalisi da grandi magazzini costituisce al contempo il nodo drammatico, poiché è attraverso la sua intrusione che il potere dei dominatori si legittima. Non ci sono poteri buoni, e fra tutti il potere psichiatrico è forse lo strumento di sottomissione più perverso, nella cosmesi della violenza di genere e nell’occultamento della lotta di classe dietro alla patina della scientificità.

Sono espliciti i parallelismi fra l’interesse di Mark per la zoologia e la sua attrazione per Marnie; non è un caso nemmeno che Hitchcock lo descriva apertamente come un cacciatore, e ne esasperi anche visivamente la discendenza “aristocratica”: la sceneggiatrice Jay Presson Allen, nel documentario The trouble with Marnie, mette ben in evidenza quanto sia surreale l’abbigliamento fake british del padre di lui. Nulla di più inglese, poi, della caccia – lo sbranamento della preda è una sequenza emblematica, nel mettere a nudo la crudeltà di un gioco pilotato, ineluttabilmente, dalle regole dello status quo. La società ultra liberale americana tale e quale al vecchio mondo da cui vorrebbe prendere le distanze. Si insinua una certa inquietudine durante la visione del finale: davvero un happy ending alla Cenerentola? Il vicolo cieco, disegnato dallo stagliarsi di un fondale dall’aspetto volutamente posticcio, sembra suggerire di no. E chi è in realtà più malato, fra Mark e Marnie? La frigidità di lei è in definitiva un problema maggiore per l’uomo che chiede amorevolmente di poterla dominare. La tragicità risiede proprio in questo ossimoro, nella dialettica fra tenerezza e violenza che problematizza il rapporto fra i protagonisti, veicolando sottilmente una diagnosi ben lungi dall’aver esaurito la sua carica di attualità.

Thi Hòa Evangelisti