Midori haruka ni è il primo lungometraggio a colori realizzato sul Konicolor, sistema a tre matrici messo a punto dal laboratorio Konishiroku Shashin Kogyo, e al centro della rassegna dedicata al cinema giapponese – Jazz musume tanjo e Akai jinbaori sono le altre due pellicole girate secondo questo procedimento. È stato particolarmente interessante assistere alla proiezione subito dopo Natsuko no boken, per poter confrontare la resa del colore con quella del Fujicolor, principale rivale fino all’avvento del più accessibile Eastmancolor, tecnologia d’importazione che finì per conquistare il mercato. In questo momento di transizione, catalizzato soprattutto negli anni Cinquanta, è dunque affascinante osservare come i registi abbiano esplorato e perfezionato le potenzialità proteiformi di questi due sistemi.

Se in Natsuko no boken dominava una resa naturalistica del colore, dal pastello degli interni ai panorami lussureggianti dell’Hokkaido, in Midori haruka ni a farla da padrone sono toni sgargianti, a tratti volutamente sovraccarichi nella saturazione – con effetti interessanti nei contrasti, dalle ambientazioni all’abbigliamento della protagonista Ririko, straordinariamente simile a quello della Dorothy di Victor Fleming: lo sgargiante berretto rosso, oltre a essere l’equivalente visuale di un punto esclamativo per un film soffuso, a tratti pervaso dal blu, lascia pensare alle scarpe magiche ne Il mago di Oz. Non è l’unica analogia interessante: anche Midori haruka ni è un film musicale d’azione per ragazzi, dalle atmosfere vagamente surreali, talvolta ai limiti del kitsch e del grottesco; sebbene l’uso del colore non sia qui piegato alla psichedelia, l’effetto rimane alquanto onirico, nonostante i toni più schiettamente fiabeschi. L’incipit è tuttavia decisamente meno innocuo di quanto non possa sembrare.

Ririko è figlia di uno scienziato, scopritore di un segreto terribile, capace di portare all’umanità pace o distruzione senza la possibilità di una terza via: considerando che il film è del 1955, il simbolo dell’atomo che campeggia nel laboratorio inclina il lettore a leggere l’opera come una cartina al tornasole, intravedendo lo spettro del trauma di Hiroshima e Nagasaki dietro all’ingenuità di una storia d’avventura piuttosto lineare. Colpisce anche la transizione fra il rapimento di Ririko e la sua fuga: un vero colpo di frusta nell’umore del film, per la violenza psicologica cui è sottoposta la famiglia della bambina. Se il mondo non sembra risparmiare gli adulti, sulla realpolitik e i suoi intrighi avranno infine la meglio i bambini, che al di là delle farsesche scene di colluttazione appaiono intoccabili – protetti da un’aura sacrale di innocenza: l’oggetto della ricerca, il carillon verde contente le ricerche del padre di Ririko, sembra nascondere nella purezza cristallina della sua musica il mistero intangibile di questo candore. Immacolato e inaccessibile alla goffaggine spietata del Male, incarnato da una banda di scherani che dietro all’etichetta di spie straniere non è dato comprendere da chi siano manovrati: macchiette ridicole eppure efficaci, nel mondo adulto, nell’esercizio bruto della violenza.

Thi Hòa Evangelisti