“Resnais è stato forse il primo cineasta che abbia tentato con successo di ricomporre i diversi frammenti di coscienza della vita mentale dei personaggi; a esplorare i meccanismi, i miti che condizionano il comportamento dell’animale uomo”. con queste parole del critico Aldo Tassone si potrebbe efficacemente riassumere il significato di fondo di Muriel, ou le temps d’un retour (1963) di Alain Resnais.

Terzo lungometraggio del regista, primo a colori, Muriel è una profonda riflessione sul tempo che passa, sulla memoria, sulle occasioni perdute, che si dispiega in un incontro tra pochi personaggi (i principali), ognuno dei quali ha dei conti in sospeso col proprio passato; ognuno preda di un particolare tipo di alienazione. Hélène è un’antiquaria che vive a Boulogne-sur-Mer insieme al figliastro Bernard, reduce dalla guerra di Algeria. La donna invita il suo antico amore Alphonse a raggiungerla per qualche giorno e l’uomo porta con sé la giovane Françoise, un’attrice che spaccia per sua nipote, ma che è in realtà la sua amante. Se Hélène si crogiola nel rimpianto e nel ricordo dell’amore finito, Bernard è ossessionato da Muriel, una donna che ha torturato e ucciso in guerra assieme ai suoi commilitoni.

Ed è proprio Muriel, colei chedà il titolo al film e ne è la grande assente allo stesso tempo, a rappresentare l’impossibilità di staccarsi da ciò che è stato, come accadeva per la Rebecca di Hitchcock. Muriel non esiste più, forse non è mai esistita; non si sa chi fosse, da dove venisse, né perché abbia fatto quella fine, ma nell’intero tessuto della vicenda simboleggia l’indimenticabile, l’indelebile. Ed inoltre è lei, paradossalmente, l’input che spinge a rimettere insieme i pezzi (o almeno provarci) di questa vicenda volutamente frammentaria, scomposta, apparentemente confusa, come un puzzle dai mille colori; un’idea sottolineata anche grazie al montaggio rapido e volutamente ellittico. Si passa così da un personaggio all’altro, da un luogo all’altro, da un dialogo all’altro, senza un’apparente coerenza.

L’impossibilità di vivere il presente e allo stesso tempo di riappropriarsi pacificamene del passato, dà inevitabilmente vita al dramma, poiché Bernard ucciderà il compagno d’armi Robert, complice dell’omicidio e “colpevole” di aver tentato di distogliere l’amico dal ricordo, ed Hélène e Alphonse finiranno con l’allontanarsi sempre di più, rivangando menzogne, appuntamenti mancati e risentimento. Il tutto è collocato in un sfondo anch’esso instabile: una casa, quella di Hélène, in cui gli scatoloni sono ancora da disfare e i mobili vengono ripescati e restaurati per poi essere venduti, ed una cittadina, Boulogne, anch’essa in una situazione di limbo, semi-distrutta dai bombardamenti all’epoca della guerra e quindi semi-ricostruita.

Muriel è in sostanza un film il cui senso non si coglie facilmente appieno: complesso, denso di simbolismo e di rimandi, lascia senza dubbio perplessi e un po’ spaesati ma merita certamente più di una visione.

Denise Penna