Tra i mestieri del cinema, c’è quello del compositore di musiche per film. Al Cinema Ritrovato, i quattro professionisti del settore presenti alla conferenza su questo tema, hanno  sollevato questioni nuove  – o meglio, questioni che varrebbe la pena sviluppare nel dibattito internazionale attuale – e, allo stesso tempo, hanno vivificato riflessioni che già fanno parte della tradizione che riguarda le teorie sulla musica per il cinema.Musicare oggi dal vivo, con l’accompagnamento del pianoforte, un film muto, significa riflettere su come cambiano le scelte musicali in relazione allo spettatore contemporaneo: e così, nell’esperimento in sala su The Immigrant (1917) di Chaplin, mentre un musicista come Coppola è interessato a sottolineare il carattere emotivo del film cercando di creare nello spettatore un ampio orizzonte di attese, un compositore come Thibaudeau ripropone l’importanza dei cliché musicali da una parte che dall’altra cerca di infrangere con un accompagnamento atonale.

Questi due tipi di esecuzioni dal vivo, si inseriscono pienamente nel dibattito sull’accompagnamento musicale che precede l’avvento del sonoro: nel 1916 –  appena un anno prima dell’uscita di The Immigrant  – in uno dei primi libri teorici sul cinema, Hugo Münsterberg scrive che “la musica allevia la tensione e mantiene viva l’attenzione”; mentre nel 1922, Joseph Roth sottolinea quanto “la rappresentazione del suono tenga sveglia un’assemblea di sordomuti”, e che solo “la sinfonia in La minore e la barcarola, la marcia funebre e il valzer della sfinge riescono a creare l’azione”.  Marcando questioni più legate alla continuità tra drammaturgia musicale e filmica, musicisti come Neil Brand (che sottolinea musicalmente le gag di Chaplin) e Timothy Brock (che registra con l’orchestra le musiche per The Immigrant) riconducono implicitamente il dibattito ai rapporti di “verosimiglianza” tra le immagini e i suoni, ovvero alla capacità del cinema di essere più o meno fedele alla riproduzione della realtà. Se con l’avvento del sonoro nasce la possibilità tecnica di aggiungere alle immagini mute anche le parole e i rumori, la musica risolve il problema più immediato dell’aderenza al reale per cominciare ad assolvere un altro genere di funzioni, come quella narrativa.

Da questo momento in poi, dunque, il dibattito si sposterà da questioni sostanzialmente di ordine estetico o psicologico (la musica nasconde la “terribilità” dell’immagine muta e dona profondità spaziale alla fruizione cinematografica nel suo complesso), a questione di ordine drammaturgico: e così, al principio degli anni zero, il musicologo Miceli  insiste sull’uso della musica in funzione complementare dell’immagine come elemento di integrazione alla rappresentazione filmica, con intenti –  oltre che di approfondimento drammatico e psicologico  – narrativi, descrittivi, ambientali.

Attualmente, forse più sul piano critico e teorico che su quello storico ed estetico, molte questioni sono ancora da approfondire; probabilmente perché l’ambiguità che avvolge la musica cinematografica come “genere musicale” è la stessa che, semanticamente, coinvolge la colonna audio-visiva nel suo complesso.

Marianna Curia – Associazione Culturale Leitmovie