Un’atmosfera mélo ha invaso ieri sera piazzetta Pasolini dall’istante in cui “la nonna” (il mitico proiettore a carbone, classe 1940) ha iniziato a proiettare sullo schermo le immagini di Stella Dallas, film del 1925 magistralmente diretto da Henry King.

La struggente storia di Stella (Belle Bennett), sposa e madre destinata al sacrificio, è narrata con uno sguardo amorevole e pieno di affettuosa compassione che rende la donna il centro di simmetria di relazioni che si sviluppano per opposizione: mentre il marito Stephen (Ronald Colman), costretto a dividersi da lei e dalla figlioletta Laurel a causa del lavoro, è fisicamente assente, la presenza dello spasimante Ed (Jean Hersholt) è invadente e fastidiosa (ma offrirà a Stella, in modi del tutto impensati, la possibilità di donare un futuro felice a Laurel). Quando Stephen ritrova la sua amata dei tempi della gioventù, l’eccentricità di Stella, pur presente dall’inizio, diventa ancor più palese perché messa a confronto con l’eleganza di Helen (Alice Joyce): l’una è l’eccesso, l’altra la sobrietà.

Però Stella, con i suoi vestiti così sgargianti (nonostante il film sia in bianco e nero), la sua curiosità del mondo e della vita, l’amore incondizionato per la figlia che ella tenta sempre di proteggere dalle brutture del mondo, fa breccia nel nostro cuore grazie alla magnifica interpretazione della Bennett, che sa padroneggiare con grazia sia lo spazio sia le emozioni attraverso i movimenti del corpo e gli sguardi. Insieme alla complessiva messa in scena, questi sguardi ci portano ad essere empatici nei confronti della protagonista e tale empatia è trasfigurata in particolare nella sequenza finale, in cui Stella, come fosse al cinema, come se fosse al nostro posto (o forse siamo noi che potremmo essere al suo) guarda Laurel in procinto di sposarsi, incorniciata nella finestra.

La musica suonata da Stephen Horne ed Elizabeth-Jane Baldry ha accresciuto notevolmente questo coinvolgimento nel film che già la regia mirava ad ottenere. Composta da Horne su invito dell’Hippodrome Festival of Silent Cinema di Bo’Ness, la partitura alternava temi ritmati suonati alla tastiera in concomitanza con i momenti più allegri del film a melodie più intime affidate al flauto traverso o alla fisarmonica durante le tenere scene familiari, con l’aggiunta di alcune improvvisazioni all’arpa volte anche a riprodurre, attraverso un uso atipico dello strumento (picchiettii, glissando), varie situazioni sonore della trama come il trotto dei cavalli. I due musicisti ci hanno trasportati in un’atmosfera da cinematografo degli anni venti, completata dal suono magico della proiezione al carbone operata − con il necessario cambio di bobina − da Stefano Bognar.

Alessandro Guatti – Associazione Culturale Leitmovie