Tratto da un romanzo poliziesco di Albert Simonin, esponente della corrente realista del polar francese, Touchez pas au grisbi è il film che rilancia la carriera di Jean Gabin dopo la guerra. Alle soglie della senilità Gabin interpreta il personaggio di Max, un elegante malavitoso che, ormai, ha solo voglia di ritirarsi e andare a letto presto. Un furto di lingotti d’oro all’aeroporto di Orly doveva essere il suo ultimo colpo, ma il rapimento del suo affezionato socio in affari lo costringe a rimettersi in azione un’ultima volta.

Gabin ha il viso segnato dal tempo, il passo un po’ rallentato e i capelli bianchi, ma reca ancora con sé la memoria degli eroi tragici condannati dal destino che ne avevano fatto il volto del realismo poetico negli anni Trenta. Max non potrebbe essere più diverso: il bottino (affettuosamente rinominato “grisbì”) sembra interessargli relativamente poco, così come le tante donne di cui si circonda. Il mito del seduttore nottambulo sembra ormai un ricordo lontano.

Touchez pas au grisbi si basa sul solido intreccio poliziesco di Simonin, eppure l’azione è continuamente interrotta e rallentata da tempi morti. Becker indugia più del tempo necessario sugli aspetti della vita quotidiana o sulle piccole idiosincrasie dei suoi personaggi, e forse per la prima volta nella storia del cinema si prende la briga di mostrare un gangster che si lava i denti. I tempi accelerati e angosciosi del noir americano cedono il passo a un ritmo molto più lineare e ordinario, che ridà importanza agli spazi domestici.

Secondo Truffaut “il vero soggetto di Touchez pas au grisbi è l’invecchiare e l’amicizia”. In effetti Becker, che sembra non preoccuparsi molto di tenere alta la suspance, racconta piuttosto la storia di due amici di vecchia data, e ritrae il mondo della malavita con realismo e affettuosa ironia. Becker dimostra comunque di padroneggiare alla perfezione il modello americano di riferimento, e confeziona un ottimo film di genere. Touchez pas au grisbi si muove con disinvoltura tra i topoi del poliziesco americano, che vengono ora accolti ora rielaborati con una certa dose di ironia – come nella scena in cui Max, anziché torturare un membro della banda rivale per ottenere informazioni, si limita a schiaffeggiarlo bonariamente per poi chiedergli aiuto nel trasportare un carico troppo pesante per la sua età.

Parzialmente assimilato e parzialmente rielaborato, il poliziesco si trasforma nelle mani sapienti di Becker in un’occasione per riscoprire il milieu della malavita e posare uno sguardo pieno di empatia su personaggi bonari e a volte un po’ goffi. Il risultato è un poliziesco umano e crepuscolare. Per dirla ancora una volta con le parole di Truffaut, “Touchez pas au grisbi è ai miei occhi un regolamento di conti tra grossi gatti – ma gatti di lusso – stanchi e, se posso dire, logorati”.

Maria Sole Colombo