Sarebbe stato interessante ascoltare le parole di Bernardo Bertolucci ed essere introdotti all’interno di Ultimo Tango a Parigi da chi questo film l’ha concepito, scritto e diretto nel 1972. Purtroppo il regista non ha potuto presenziare-  impegnato a Roma per rendere l’estremo omaggio a Bud Spencer- ma è come se in sua assenza avesse delegato ogni parola alle immagini dei titoli di testa: due strazianti dipinti del genio Francis Bacon che, senza complimenti, dilania i corpi  e i volti di un uomo e una donna. Sono figure deflagrate al proprio interno, immersi nell’ordine e nel colore. Per celebrare Marlon Brando era doveroso proiettare questo film “dell’età matura”, che insieme a Il Padrino ha segnato la sua definitiva consacrazione e l’uscita da quel decennio di declino che aveva minacciato di oscurarne il mito.

Il suo personaggio, l’americano Paul, fa capolino ai nostri occhi imprecando disperato, mentre il grido viene risucchiato dai rumori di una metro in corsa. La meraviglia di Parigi lo circonda mentre vaga per le strade, nel suo impermeabile color cammello, distrutto dal suicidio della moglie Rosa. Gli passa accanto Jeanne, l’esordiente e formidabile Maria Schneider:  bella, giovane, sofisticata.

Passano pochi minuti di pellicola e i due personaggi consumano in un appartamento sfitto, la prima delle numerose scene di sesso esplicito che hanno creato attorno al film l’aura di scandalo che ha sicuramente contribuito al suo successo. Ma ridurre Ultimo Tango a Parigi a un film erotico o pornografico sarebbe sbagliato e ottuso.

L’intero girato ha una bellezza intrinseca particolare, non sono belli solo i protagonisti o Parigi anche nei suoi angoli più sudici, ma le ascensori, le mattonelle delle toilettes, le luci dei telefoni pubblici. Un grande plauso va quindi a Vittorio Storaro, direttore della fotografia di quasi tutti i film di Bertolucci, che contrappone al plumbeo della “ville lumiere” colori saturi e caldi. La psicologia dei due personaggi è qualcosa che non possiamo afferrare del tutto, chiusi in un appartamento enorme, giocano a Cappuccetto Rosso e il Lupo, sondando il sesso, la paura, i limiti.

Si amano senza conoscere nemmeno i rispettivi nomi, talvolta memorie dei reciproci passati e presenti affiorano. Lui è alle prese con la suocera venuta a seppellire la figlia, e con il clone di se stesso, l’amante della moglie (Massimo Girotti), che indossa la stessa vestaglia, beve lo stesso Bourbon e abita nella stessa pensione. Lei è fidanzata con un giovane regista, di cui più che compagna, è musa ispiratrice. Nel personaggio di Tom  (Jeanne-Pierre Léaud) e nella sua troupe   non è difficile cogliere la bonaria autoironia di Bertolucci verso il proprio ambiente. Un mondo straordinario, che confeziona storie e inquadrature perfette ma talvolta tralascia il fattore più umano. E’, infatti, risaputo, grazie alle interviste rilasciate nel corso degli anni dalla Schneider e dal regista, come la celeberrima scena del burro – bersaglio numero uno della censura- sia stata improvvisata da Brando e Bertolucci ai danni della ignara attrice, che per tutta la vita ha cercato invano di scrollarsi di dosso il personaggio di Jeanne. Un film, al di là dei retroscena e del travagliato iter giudiziario che ne contraddistinse la distribuzione, che merita, più di essere commentato, di essere visto.

Beatrice Caruso