In occasione della presentazione del libro “Cinema senza fine” (Mimesis, 2014), alla presenza dell’Assessore alla Cultura del Comune di Bologna Alberto Ronchi e del curatore Roy Menarini, pubblichiamo uno dei 25 saggi contenuti nel volume, scritto da Claudio Bartolini e dedicato a Cosmopolis di David Cronenberg, che verrà proiettato la sera stessa. Segue.

 

ASIMMETRIE DEL (CYBER)CAPITALISMO

COSMOPOLIS (2012) DI DAVID CRONENBERG

 

 

“Lei ha la prostata asimmetrica”

(Dottor Ingram, Cosmopolis, Don DeLillo, 2003).

Anomalie. Piccole, impercettibili varianti in un sistema rigoroso. Fori che bucano le pareti di stanze pressurizzate, incrinandone gli equilibri. Virus, inoculati in organismi sani e messi al lavoro per riconfigurare il metabolismo, vampirizzare le funzioni dell’ospite, alterarne irreversibilmente il funzionamento. Da quasi cinquant’anni David Cronenberg lavora sulle disfunzioni, mettendo in scena l’immaginario della propria contemporaneità per prefigurare scenari di crisi simbolica e materiale. Dal parassita afrodisiaco che in Il demone sotto la pelle si insinuava nell’ipermoderno centro residenziale, scardinando le coordinate del luogo e dei suoi ospiti, al tumore cerebrale provocato dal programma televisivo cancerogeno di Videodrome, fino alle variabili impazzite di La mosca e alle sostanze sintetico/stupefacenti di Il pasto nudo ed eXistenZ, il cineasta di Toronto ha seguito la linea retta di un preciso programma creativo. Creando un macrotesto coerente e coeso rispetto alla costante delle proprie ossessioni, Cronenberg ha variato i codici, i generi e le consuetudini della sua arte sulla base dei mutamenti che la contemporaneità gli ha sottoposto nel corso dei decenni. Negli anni Settanta e Ottanta trionfano le viscere e il sangue, l’horror e la solidità di sguardo, i parassiti di Shivers e i pungiglioni fallici di Rabid. Sete di sangue, la paura delle malattie veneree e i nuovi modelli di sessualità onnivora. L’autore attinge a un mondo profondamente tattile, tagliando e trasformando i corpi per esplorarne il (dis)funzionamento. Feti mostruosi come escrescenze tumorali sono il corrispettivo visivo del collasso dell’istituzione familiare; ferite addominali nelle quali inserire VHS rendono conto del crescente strapotere coercitivo dei mass media; spaventose trasformazioni in insetto sono ovvie conseguenze di uno sviluppo scientifico regolato solo dall’hybris di folli mad doctor, a loro volta pilotati da deviate logiche industriali. Tutto è carne, putrefazione e mutazione corporea, in una messa in scena fantahorror scandita dalla concretezza di effetti visivi creati artigianalmente.

Poi irrompono gli anni Novanta e l’immaginario al quale Cronenberg attinge subisce uno scarto profondo. La liquidità dello sguardo postmoderno prende il sopravvento sugli appigli solidi della modernità, svincolando progressivamente l’idea dalla sua rappresentazione materica. Se in Inseparabili,la macchina da presa si ferma un attimo prima di penetrare il corpo, in M. Butterfly è l’immagine della mente a creare la realtà virale: René Gallimard si innamora di un uomo che crede donna al punto da credere di averlo ingravidato con la sola penetrazione anale. Nel frattempo le riflessioni sui media si ancorano a supporti sempre meno invasivi e le VHS viscerali di Videodrome diventano realtà virtuali da connettere al midollo spinale attraverso semplici fori (che incrinano gli equilibri di stanze pressurizzate). I sistemi di senso – industriali, economici, tecnologici – sono cambiati, e Cronenberg modula la sua rappresentazione disfunzionale del reale interpretandone le direttrici. Irrompe il melodramma, con la sua eterea carica emotiva, e la centralità del corpo spalanca interstizi di dialogo con una mente sempre meno organica e sempre più psicologica. I tumori cerebrali diventano scissioni psichiche, i mutanti impazziti sono ora uomini intimamente in crisi nel loro rapporto con il mondo e gli affetti.

Nel nuovo millennio l’equilibrio mente/corpo è nuovamente rivisitato, con la prima che si impossessa della scena e diviene epicentro teorico di riflessione. Spider, A History of Violence e La promessa dell’assassino riflettono lo smarrimento interiore dell’individuo contemporaneo, la perdita di coordinate e ancoraggi solidi e le difficoltà nel rapporto con il sistema circostante. L’homo cronenberghianus si muove in contesti thriller e noir, da sempre territori di elezione per la messa in scena di scissioni identitarie e doppi giochi contestuali. Dennis Cleg duplica il reale sulla base della propria schizofrenia; nella mente del mansueto Tom Stall alberga il serial killer Joey Cusack, incarnazione del rimosso tornata a far visita al protagonista; Nikolai Luzhin smarrisce la sua identità di agente sotto copertura nel ruolo di un mafioso della Vori V Zakone. La liquidità postmoderna evapora in universi di senso immateriali e lo spettatore fatica a riconoscere il timbro di un autore fino ad allora legato indissolubilmente alla visceralità di sguardo. In realtà, il macrotesto cronenberghiano procede senza freno a mano lungo la sua linea retta e in esso sono riconoscibili le medesime ricorrenze teoriche degli esordi, semplicemente condotte a uno stadio materico altro. Se il virus degli esordi si legava a fobie e ossessioni solide (malattie veneree, pervasività tecnologica), con il passare del tempo sono proprio tali ossessioni contestuali ad aver subito alterazioni profonde, debordando nei territori dell’immateriale (il virtuale, l’identità, la delocalizzazione dell’informazione e del lavoro).

Inevitabile, dunque, che anche il virus teorizzato dal cineasta canadese, con il passare degli anni, abbia dato vita a opere sempre più focalizzate sull’individuo e sempre meno palesi nella loro messa in scena deformante dei tempi. A Dangerous Method e Cosmopolis costituiscono in questo senso un ulteriore punto di svolta e, sicuramente, di non ritorno. La deviazione nel sistema dell’intangibile interna al macrotesto dell’autore trova nei due film dei nuovi anni Dieci consacrazione e compimento. Campi e controcampi, dialoghi in(in)terrotti, parole e omissioni, (an)affettività e asetticità formale: il cinema di Cronenberg ha compiuto il definitivo salto nel mondo delle idee, evaporando la materia e privandola di ogni valore spendibile. Se in A Dangerous Method, però, i confronti verbali interni al triangolo Freud/Jung/Spielrein e i pellegrinaggi nei meandri della mente conducono all’elaborazione di teorie psicoanalitiche coerenti, Cosmopolis abbatte anche quest’ultima logica di racconto, dando vita a circonvoluzioni dialogiche prive di qualunque referente oggettivo e consegnate al mondo dell’immateriale, al pari dei sistemi finanziari continuamente evocati e mai realmente esperiti.

Adattando il romanzo di Don DeLillo, testo chiave della letteratura americana contemporanea, Cronenberg porta a compimento lo stato gassoso del proprio cinema mentre, parallelamente, rende conto dei mutamenti di rappresentazione dell’immaginario economico mondiale. Negli anni Trenta del New Deal e dei grandi moloch industriali la Settima Arte americana rifletteva l’attualità economica attraverso la messa in scena dell’industria pesante (pensiamo alle sequenze nella catena di montaggio di Tempi moderni); negli Ottanta dell’edonismo e delle bolle economiche la materia si liquefaceva nei flussi di denaro impalpabile di Wall Street e nel consumismo mediatico di Essi vivono, comunque ancorati a centri di potere concreti e ben localizzati. Nel panorama capitalista odierno, l’ingranaggio economico gira soltanto nel mondo delle idee, situato in un luogo virtuale e disancorato da ogni supporto tangibile. Nel pianeta Terra esistono soltanto punti di accesso al cybercapitale remoto, che Cronenberg si limita a mettere in scena sotto forma di schermi e display luminosi, attraverso i quali Eric Packer può essere a conoscenza delle nubi di denaro gassoso che ogni giorno muove (in)consapevolmente[1]. Nella capsula per il teletrasporto di Seth Brundle è finito il capitale, mentre nella realtà riscontrabile rimangono simulacri privi di senso.

Cosmopolis è il frutto di un meticoloso lavoro in sede di sceneggiatura, nel quale Cronenberg mantiene le parole ed elimina gli atti per consegnarci un trattato verbale sulla deriva dei tempi e sull’autoannientamento capitalista. A bordo della sua limousine, Packer vede fallire il proprio impero senza poter (voler) opporre resistenza, mentre espone i propri dubbi esistenzial/economici a moglie, collaboratori, amanti e guardie del corpo. La narrazione, scandita da primi piani e interruzioni di dialogo, elide le emozioni a beneficio di un totale straniamento dell’Io, presente di fronte alla macchina da presa, ma a sua volta delocalizzato sul piano identitario ed emotivo. Le (rare) sensazioni forti presenti e meticolosamente descritte nel testo da DeLillo – la breve estasi che Eric prova dopo la scarica elettrica inflittagli dall’amante/bodyguard, la morte per mano di Benno Levin – sono confinate nel fuoricampo, nel non detto e nel non mostrabile di un cinema che si fa pura astrazione concettuale dei suoi tempi. Come i quadri di Mark Rothko, più volte evocati e a più livelli coinvolti nella scena (sugli schermi di un display in auto, nelle parole di Didi Fancher, nei desideri vuoti e feticisti di Eric, emblematicamente sui titoli di coda) anche il film di Cronenberg è astrazione di realtà mediante continue “pennellate” atte a raggiungere la perfezione geometrica e cromatica dell’inquadratura. Cosmopolis è un’opera frontale di rara immediatezza, la cui messa in quadro si abolisce in camera fissa, in leggere panoramiche e in carrelli all’indietro (con zoom contrapposti) per lasciare spazio al protagonismo dialogico e simbolico. Gli elementi dell’arredo filmico che così spesso entravano in rapporto/conflitto con il personaggio, assumendone connotati ed esistenza carnale, sono ora semplici e devitalizzate cornici dell’azione.

La “inscindibilità tra tecnologia e capitale” imprigiona l’anima degli schermi televisivi e ne blocca irreversibilmente lo sviluppo organico: se i televisori di Videodrome sanguinavano in seguito alla mostra degli omicidi, i monitor di Cosmopolis, pur restituendo l’accoltellamento in diretta del capo del Fondo Monetario Internazionale, non subiscono le conseguenze “fisiche” dell’accaduto. Questo, essenzialmente, per due motivi: prima di tutto la già accennata esclusività funzionale dell’apparecchio, diretta emanazione del capitalismo in remoto e, dunque, distante da ogni referente in carne e ossa; in seconda istanza, il legame simbiotico tra l’apparecchio tecnologico e il suo proprietario fisico, anch’egli quasi del tutto svincolato dalle connessioni con l’istanza reale e delocalizzato anche a livello geografico (“Dov’è il tuo ufficio? Cosa fai tu esattamente?” sono domande poste a Eric Packer che non trovano risposte comprensibili secondo la tradizionale topografia urbana). Anche la limousine, a differenza delle auto “partecipanti” agli amplessi di Crash, si limita a contenere, isolare e traghettare il protagonista: la totale indifferenza dell’ingranaggio meccanico nei confronti del suo utilizzatore riflette emblematicamente i mutamenti di un capitalismo non più bisognoso di compiersi a partire dal sudore dell’essere umano sui macchinari. L’auto di Packer procede verso l’obiettivo, incurante tanto di ciò che accade sui suoi sedili, quanto delle manifestazioni che impazzano per le vie di Manhattan.

Ma è proprio attraverso la contrapposizione tra “dentro e fuori l’automobile” che Cronenberg sviluppa e insinua il virus, estrinsecazione amplificata della malattia che affligge e corrode il cybercapitalismo. Agli interni cristallizzati, immobili nell’asetticità delle luci fredde di Peter Suschitzky e nel sound design di Howard Shore a suggestioni statiche, si oppongono esterni caotici, dalle tonalità marroni invase da sporcizia e residuati di epoche passate. Quello che si consuma nell’acquario su ruote è un viaggio atemporale tra un passato del quale non arrivano nemmeno i suoni e un presente/futuro in via di autodisfacimento. “Questa è una protesta contro il futuro” afferma con decisione Jane Melman, mentre fuori dai finestrini impermeabili ai rumori impazzano cori di manifestanti aggrappati a giganteschi topi, simboli di un sindacalismo strenuamente opposto ai modelli dominanti al grido ricorrente: “Uno spettro si aggira per il mondo. Lo spettro del capitalismo”. “Sono persone generate dal mercato” o, più probabilmente, sono residuati di un mercato precedente che devono esistere per affermare quello esistente. Ma anche nelle nuove strutture dell’economia intangibile, isolata dal passato e dalle sue lezioni, il virus riesce a fare breccia. L’anomalia cronenberghiana, specchio (nemmeno più di tanto) deformante della crisi economica del 2008 (prefigurata da DeLillo già nel 2003) incrina gli equilibri della narrazione e di Eric Packer, da una parte interprete privilegiato del nuovo sistema, dall’altra sottilmente attratto dai fossili del vecchio immaginario.[2]

Già il presupposto di base del racconto permette una prima distorsione dell’ordine: Packer deve tagliarsi i capelli e vuole assolutamente recarsi da un barbiere di Hell’s Kitchen, attraversando tutta Manhattan. Potrebbe chiamare un parrucchiere nel suo ufficio, oppure farlo salire direttamente a bordo della limousine. Eppure, opta per una tra le zone più malfamate di New York, come se volesse provare qualche emozione forte nello scoprire il mondo ai margini del suo universo di segni virtuale. Questo è soltanto il primo di una serie di spiragli che il protagonista apre all’irruzione del dato umano, concreto, esterno. Seguiranno le discese dall’auto per incontrare la moglie in un bar e in biblioteca (simbolo di un consumo culturale ormai obsoleto), la tappa in un motel per abbandonarsi a un fugace e primordiale amplesso con la bodyguard Kendra, la sosta notturna nei pressi di un campo di street basket dove sperimentare sulla pelle le proteste sindacali (la torta in faccia di Petrescu, che dichiara emblematicamente “Sono un morto vivente!”) e l’omicidio ai danni della guardia del corpo Torval.

Tutto è compiuto meccanicamente e quasi automaticamente: la mente non è mai dove si trova il corpo e le azioni (ordinare al bar, vivere il rapporto sessuale, persino uccidere) sono compiute mentre si parla (ancora e sempre) d’altro fino a dimenticarsi di ciò che si sta facendo (“Ho ordinato questo?”). Packer osserva ed esperisce il reale tangibile durante le brevi interruzioni del percorso negli interni ovattati della limousine, mettendo in cortocircuito gli assiomi di un ingranaggio che dovrebbe restare dematerializzato. Lui, sovrano del calcolo e dell’oscillatoria preveggenza finanziaria, spalanca le porte all’emorragia in virtù di una spinta irresistibile verso l’elemento di natura, in grado di far saltare il banco nella logica di comprensione del (nuovo) esistente. L’attrazione verso questa variabile, a lui comunque incomprensibile, rende conto di quanto, in fondo, anche Eric sia un essere umano, la cui esistenza risponde alle regole fisiche del reale. Quando il dottor Ingram gli diagnostica un’asimmetria prostatica, il suo sistema di comprensione va in pezzi, per il semplice motivo che il corpo, di nuovo e come sempre in Cronenberg, ha stabilito una connessione con la mente.

Nel nuovo cinema cronenberghiano, l’irruzione della carne rimane al di fuori dell’inquadratura ma prende comunque forma come concetto: la materia viene così elevata a idea di materia, insinuandosi con rinnovato vigore nella psiche del protagonista. Durante il monologo conclusivo, Benno Levin smaschererà le ragioni dell’autoannientamento del capitale di Eric, identificando nella mancata considerazione del dato di natura il fallimento dell’intero modello economico. In un meccanismo guidato da un sistema di calcolo del tutto privo di margini organici, è proprio l’imprevedibilità umana (di natura) la variabile capace di spingere al collasso l’intera struttura: ignorando e sottovalutando quest’ultima, Packer non ha compreso le oscillazioni dello yuan (il giapponese yen), rovinandosi con le sue stesse mani. Ancora una volta, Cronenberg inocula in una rappresentazione estrema e disfunzionale della contemporaneità un virus, rendendo conto al pubblico delle sue tappe evolutive. A partire dal contagio (ben prima dei titoli di testa), proseguendo con la gestazione (la limousine come macchina incubatrice asettica) la manifestazione (la scoperta della prostata asimmetrica, l’omicidio di Torval) e la diffusione (l’effetto-domino dell’operato di Packer sull’economia mondiale), l’autore canadese conduce lo spettatore alla catastrofe, portata a compimento nella soffitta sporca e maleodorante di Benno Levin. Tuttavia, a differenza delle opere precedenti, al termine del percorso virale non c’è morte, né tantomeno rinascita. Se la nuova razza contaminata dal parassita afrodisiaco era destinata a fondare un nuovo ordine in Shivers e la piccola Cindy portava (addosso e nel mondo) i segni della psicoplasmica in Brood. La covata malefica. Se Max Renn si aboliva in video – prefigurando una nuova esistenza dominata dalle regole del mass media – e il figlio di Brundle-Mosca sopravviveva al mostruoso padre nel grembo di Veronica Quaife. Se in eXistenZ “Siamo ancora nel gioco?” e in A History of Violence non sappiamo come reagiranno i figli di Tom Stall all’esposizione alla violenza paterna, in Cosmopolis Cronenberg non chiude la narrazione e non apre a possibili, ulteriori livelli di accesso. La crisi economica è l’oggi e, molto probabilmente, sarà il domani del sistema capitalista occidentale: perché, dunque, lasciare intravedere spiragli?

Pur di conservare il proprio finale oscuro allungando ulteriori ombre sul destino che attende il cybercapitalismo, il cineasta taglia la morte di Packer presente in DeLillo elidendo anche l’ultimo, possibile atto. L’immagine conclusiva, con la pistola di Benno Levin puntata alla testa del protagonista, è la più potente dichiarazione di contemporaneità possibile: l’Occidente comprende il proprio scacco (matto), consegnandosi nelle mani di un passato che ritorna, ineluttabile e fatale. Di un’anomalia virale mai del tutto estinta. Di un alter ego perturbante e impossibile da eliminare. E quando (e se) quel grilletto sarà premuto, si apriranno le porte della nuova Annexia, dove anche l’idea di capitale sarà per sempre estinta.

Claudio Bartolini

 

[1] Suggestiva la riflessione che propone Giulio Sangiorgio, in un ottica di ribaltamento che dal post-moderno sconfina nel post-umano: «Eric/Robert Pattinson, marcio Candide del tardocapitalismo è, almeno in potenza, post-umano: la tecnica non è più strumento che agisce sul mondo, che lo manipola […], la tecnica è strumento che rende il mondo paesaggio interiore dell’uomo». G. Sangiorgio, Cosmopolis, in «Gli Spietati».

<http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=4335>

[2] L’ambivalenza del percorso di Eric Packer è ben sintetizzata da Massimo Causo: “Il film nasce sull’autodeterminazione di un personaggio che descrive per se stesso un percorso di gloria che è al contempo una esplicita via crucis, una figura che si spinge alla fine del suo mondo (quel mondo che definisce e incarna) per compiere un atto che è allo stesso tempo un ritorno al (proprio) passato e il compimento di un futuro annunciato e fatalmente cercato: come dire, il paradigma di qualsiasi parabola cronenberghiana, fatta di veggenza e fatalismo, rivelazione e consapevolezza, determinazione e destino”. M. Causo, Il mondo interno dell’esterno dell’interno, in “Cineforum” n. 515, giugno 2012, pag. 5.