La rassegna Bigger Than Life sull’uso del Cinemascope nei film europei ospita anche il notevole I disperati di Sandor (Szegénylegények, 1966) di Miklós Jancsó. Nel film il confinamento e l’eliminazione sistematici dei rivoluzionari superstiti che parteciparono ai moti del 1848 per l’indipendenza di Ungheria rimanda esplicitamente alle conseguenze dell’invasione sovietica del ’56. Il susseguirsi dei pianisequenza è quasi impercettibile, ma non lascia scampo: il Cinemascope è perfetto per esaltare gli spazi e le rigorose geometrie, ma paradossalmente espande al massimo il senso di oppressione, nonostante la vastità degli spazi e l’orizzonte a perdita d’occhio ricordino certe inquadrature western. Nemmeno per un secondo le distese pianeggianti e il cielo sgombro comunicano un qualsivoglia senso di apertura o libertà, fosse anche come mero, speranzoso anelito.

L’immensità degli spazi è l’estensione del metafisico deserto dell’umanità in cui i prigionieri si trovano rinchiusi: non c’è poi troppa differenza tra le anguste celle, i cortili e l’esterno, forme diverse della stessa trappola mortale. Il bianco e nero è tagliente e impietoso, le figure umane indistinti segni neri e bianchi oppure volti segnati che attendono la morte. I carcerieri non devono sforzarsi troppo per mettere in atto una tortura psicologica (quella fisica è quasi assente, si passa direttamente all’impiccagione): basta annullare l’identità perché gli istinti di sopravvivenza mettano l’uno contro l’altro; dimostrare incessantemente che non c’è via di fuga, che si può solo girare in tondo, incatenati e col volto coperto, mentre il tempo perde di senso e lo spazio si muta nel suo contrario.

I disperati di Sandor è una lezione di cinema estremo e austero, impressionante e maestoso: quelli che si credono i protagonisti vengono spazzati via da un momento all’altro,  la prevaricazione (di una parte dell’altra, e dell’immagine sul tutto) è totale, la lezione della Storia, segnata dall’ultima scena, è tragica e cruda.

Chiara Checcaglini