Adattare un’opera lirica è un’impresa eroica: sulla musica, tanto per cominciare, non si può intervenire in alcun modo. Specie se si tratta del Don Giovanni. Mozart non si può piegare, il Don Giovanni non si può manipolare. Non cederà di un passo alla sensibilità dell’artista che deve averci a che fare. La musica in questo caso è lo scheletro del film, impone le proprie dinamiche, stabilisce con precisione la durata delle singole scene e ne stabilisce a priori l’ordine seguendo criteri completamente diversi da quelli del cinema. L’unica cosa sensata, allora, è mettere il cinema al servizio della musica tentando semplicemente di fornirle il miglior humus possibile per crescere e colpire, sostenendola e rinforzandone il vigore. E a Losey il gioco è riuscito quasi perfettamente, complici gli interpreti impeccabili e l’esecuzione altrettanto perfetta dell’orchestra e del coro dell’Opera di Parigi.

Nessun palcoscenico, per quanto sontuoso, può competere col potere del cinema nel moltiplicare e sovrapporre gli ambienti, ed è nell’utilizzo di questi ultimi che il regista dà fondo fin da subito a tutte le sue risorse; la prima scena, dopo gli stranianti titoli di testa illustrati, è straordinaria proprio per questo. Le riprese sul mare, i porticati, la luna, le barche, il piazzale, i fioretti, il sangue. Il regista riesce a concatenare in pochissimo tempo decine di elementi suggestivi cavalcando la musica di Mozart ed ereditandone l’agilità, e ricambia regalando al compositore il palcoscenico più bello che si possa immaginare, svuotato di ogni leziosità grazie ad una fotografia livida e sinistra. Conscio dell’impossibilità di plasmare la musica, il cinema la prende per mano. Il risultato è una sequenza magistrale.

Il film gioca su questo binomio ogniqualvolta è possibile, e arranca quando deve farne a meno, come nelle scene d’insieme inequivocabilmente teatrali, più statiche, meno interessanti, comunque sempre perfette. Quando il suo approccio può dare i frutti migliori, c’è da rimanere a bocca aperta. Losey infuria alle calcagna di Mozart, mima coi movimenti di macchina e con un montaggio intelligentissimo le sue acrobazie, a volte triplicandone la forza di per se’ straordinaria. La sua non è tanto un’interpretazione (malgrado la discussa citazione Gramsciana in apertura) del Don Giovanni quanto una prova commovente della capacità della grande arte di trovare nuova linfa, se solo gliene diamo la possibilità. Gli esempi sono tantissimi: nel momento dell’acuto, il regista sceglierà spesso di staccare in campo lungo, ribadendo l’idea di apertura; Ad un certo punto, senza ostentare la sua scelta, allineerà in diagonale tre personggi coinvolti in un gioco di voci; Una donna messa all’angolo dal celebre seduttore sarà quasi sempre prigioniera di una lunga inquadratura ferma; un attore, poi, potrà anche rivolgersi al suo pubblico per stimolarne l’empatia, ma difficilmente con la stessa efficacia dell’unico sguardo in macchina del film.

Sono tutti accorgimenti semplicissimi, parte della grammatica del cinema già a partire dal muto, ma il loro studio può ancora dare grandi risultati, ad esempio nel campo dei videoclip, o del musical, ma anche, per assurdo, nel coreografare un pestaggio o una lite in un film drammatico. Nella versione restaurata il grande film di Losey può esprimersi appieno, fornendo il massimo coinvolgimento. Poterne godere in Piazza Maggiore, su uno schermo splendido e con un sonoro adeguato, è stata una grande fortuna.

Lorenzo Meloni