Visita ou Memórias e confissões (1982) nasce con l’idea di costruire un ricordo della casa di Manoel de Oliveira. La casa è in tutto e per tutto un personaggio. Progettata da José Porto, costruita nel 1942 per il matrimonio tra il regista e Maria Isabel e che nel 1975 fu venduta a un privato per saldare dei debiti. Fu girato tra il 1981 e il 1982, quando Oliveira aveva settantatré anni, e pensato per essere proiettato solo dopo la morte. Diventa un documento di vita vissuta, dei ricordi della casa, di confessioni. Un’autobiografia.

Farinelli ricorda come nel 1977 un carro armato a Bologna si fosse fermato proprio davanti all’hotel dove alloggiava Oliveira. Poi come dieci anni fa l’avesse ammirato quando, insieme a Costa, si erano messi a riconoscere tutti i quadri e le relative relazioni nella Pinacoteca. José Manuel Costa, direttore della cineteca portoghese, introduce. Siamo abituati a vedere le biografie come altri film, volendo anche con leggerezza, ma per pudore e modestia il regista non avrebbe potuto mostrarlo al pubblico prima della sua morte.

Agustina Bessa-Luis ha scritto parte dei dialoghi. “Per chi conosce il suo lavoro qui riconoscerà lo splendore, la potenza, la meraviglia della sua regia”. Sapere che era stato fatto proiettare solo per la squadra di collaboratori e per pochi invitati all’inizio degli anni ’80 e ’90 dà l’impressione di essere inclusi in un contesto intimo e familiare. Ancora più personale è la scelta di far parlare i titoli di testa, che si elevano a encomio.

Entriamo da un cancello di legno e si racconta il giardino. C’è la magnolia col suo unico fiore bianco. Il pino silvestre è una ballerina giavanese, la palma un guardiano.Coesistono due tipi di narrazione, uno quasi poetico, il secondo ha un approccio più documentaristico. Il primo è fra due persone, che non vediamo, e che vagano per la casa come se fosse un luogo sconosciuto. Il secondo ha la forma di un’intervista a Oliveira, che mostra anche dei filmati, e alla moglie, che incontriamo in un giardino fiorito che nel campo quasi quadrato dei 35mm è del tutto simile ai paesaggi di Klimt.

Nella casa la luce è pulviscolare, la fila di finestre è “un treno nella foresta”. La camera a mano si muove impersonando l’osservatore. Sale perfino le scale guardando in basso. È chiaro come si senta il bisogno di cogliere ogni angolo, ogni oggetto, tenendo comunque un tono distaccato, “le finestre sono un occhio indifferente sull’eternità” e così è la macchina da presa. Le voci narranti sembrano a tratti infastidite e lontane da questi ambienti.

“Forse non dovevo fare un film come questo, ma ormai è fatta”

Eugenia Carraro