Primavera 1945: gli Alleati entrano in Germania. Le campagne sono in fiore, e i soldati attraversano le strade costeggiati da orti e filari rigogliosi. Anche loro sono impreparati ad arrivare a Bergen-Belsen. A 70 anni dalla fine della Guerra, l’Imperial War Museum presenta, per la prima volta in Italia, la versione integrale del documentario girato dagli operatori che accompagnarono le truppe. Al termine della proiezione, lo staff ha riservato uno spazio al dibattito: quante volte capita allo spettatore medio di alzarsi dalla poltrona senza riflettere su ciò che ha appena guardato? Guardare e consumare, infatti, rimano spaventosamente.  

Sebbene la reazione più istintiva sia domandarsi – che cosa c’è da dire? Che cosa possiamo dire, davanti a tutto questo? Che le parole sono di un’impotenza scandalosa. Possiamo sentirci puniti per il solo fatto di poter vedere. Una donna, in lacrime, bacia la mano a un soldato: è commossa perché ha ricevuto una parola gentile. “Questo è – questo era un uomo.” I deittici hanno dell’irreale, e mi auguro di non potermi mai abituare a orde di corpi che cadono, e cadono – con una leggerezza inaccettabile. Rotolano nella polvere, impilandosi nelle fosse comuni, bianchi manichini rotti e buttati via – un cumulo di immagini infrante. Gli Alleati costringono i carnefici a trasportare i cadaveri. Se li issano in spalla senza sforzo: la denutrizione ha prosciugato quei corpi, che dovrebbero essere pesanti mille e mille volte le croci per il Calvario.

Nel chiasmo fra carnefici e cadaveri, è condensata tutta l’assurdità della guerra. Ecce homo. E io – più guardo e più mi convinco di non sapere. La civiltà dell’immagine produce effetti psicologici pericolosi: la visione spinge chiunque a pensare di essere testimone in prima persona. Eppure, io non c’ero. “Noi” non c’eravamo, e in realtà non sappiamo nulla di ciò che è accaduto. Non l’abbiamo provato; e appropriarsi di esperienze che non sono nostre è forse una delle peggiori offese che possiamo arrecare ai sopravvissuti. Confondiamo la nostra cognizione storica con la nostra coscienza etica, ma c’è chi non si farà scrupoli a speculare politicamente sulla tragedia: il crinale che divide l’uso e l’abuso pubblico della Storia è molto stretto. Ecco il senso di proiettare ancora, nel 2015, un documentario in un cinema: impedire l’inflazione di queste immagini, riportandole al loro contesto originario. E apprendere nuovamente a tesaurizzare la Storia: non la Storia che giudica e assolve, ma la Storia che spiega e che capisce.

“Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. È il margine superiore di coinvolgimento che possiamo permetterci: non sopportare beffe alla sacralità della vita. Guardare i carnefici e le vittime, e riuscire ad ammettere: io sarei potuto essere l’uno e l’altro. I Tedeschi furono puniti da ciò che videro: furono condotti presso le fosse comuni per potersi chiedere per cosa avessero combattuto. Io, la mia famiglia, l’onore, la mia patria, il mio popolo e la sua storia. E tutto il resto non è cosa in sé, e non ne ha la dignità? E noi, con i nostri muri, o i muri che vorremmo costruire – che esistono già dentro di ognuno e hanno nome pregiudizio? Un nazista è ovunque nel mondo, ma davvero solo la Germania poteva generare il Nazismo? Abbiamo bisogno di un paradigma di inumanità, per giustificarci eternamente, perché tanto noi non siamo così? La Storia è sì maestra di vita; ma cosa possiamo dire di aver appreso, fintanto che permane la sua tragica coazione a ripetere?

Thi Hòa Evangelisti