Fino ad oggi, Silver Lode in Italia era famoso solo per essere stato analizzato da Martin Scorsese nel suo Viaggio nel cinema americano. Ora che lo abbiamo visto, non possiamo che condividerne l’entusiasmo. Tutto si svolge in una cittadina del west, la più stereotipata che ci si può immaginare: saloon, main street, case coloniali, stamberghe, ufficio dello sceriffo, chiesa. Infatti non è nell’originalità che si trova l’interesse dell’opera di Allan Dwan. Piuttosto nelle variazioni, negli improvvisi sbalzi stilistici (il lungo piano sequenza della fuga del protagonista, che apriva appunto uno dei capitoli del documentario di Scorsese), e soprattutto nella capacità allusiva tipica del cinema hollywoodiano di serie B. Qui il cattivo si chiama McCarthy, si spaccia per un rappresentante del governo federale, vuole incastrare il protagonista per crimini avvenuti in passato e in un altro luogo, convince lentamente tutta la città a dubitare del concittadino. Pura paranoia maccartista, e dunque film pienamente anti-maccartista, tanto che alla fine, pur sfuggendo al linciaggio, il nostro eroe rimprovera gli amici di aver perso la fiducia in lui solamente a causa di un pezzo di carta sbandierato da uno sconosciuto. L’accerchiamento è tale che qua e là ricorda persino L’invasione degli ultracorpi.

Tra le sequenze più suggestive, quella in cui l’eroe si arrampica sul campanile della town church – e quanti personaggi braccati, nella storia del cinema americano, si sono issati su campanili dai quali possono scendere solo da morti o dopo che è morto qualcuno a loro vicino. La sparatoria con la campana che oscilla pericolosamente in mezzo ai due contendenti diventa ovvia metafora cristiana.

Silver Lode è un western, se non da camera, da microcosmo, in cui la violenza sembra sempre sul punto di esplodere e la pericolosità cova sotto la cenere delle interpretazioni legnose e dei dialoghi banali (sebbene attraversati da improvvisi lampi di ironia). Insomma, il tipico film su cui esercitare una sana politique des auteurs e al quale riservare un passionale applauso, fatto di quella estatica euforia che solo i b movie americani possono stimolare.

Ciné-fils