Giunta alla quinta edizione, la rassegna Rendez-Vous, dedicata al nuovo cinema francese, ospitata a Bologna nelle sale del cinema Lumiére, si fa forte della presenza di uno tra i più apprezzati cineasti contemporanei d’Oltralpe: Benoît Jacquot. La sera di giovedì 7 aprile, il regista, accompagnato dal direttore della Cineteca Gianluca Farinelli, ha introdotto a un folto pubblico la sua ultima fatica, Journal d’une femme de chambre, in concorso alla Berlinale 2015, tratto dall’omonimo romanzo di Octave Mirbeau, pubblicato nell’estate del 1900. 

Il contesto storico che fa da sfondo alla narrazione è la Francia di fine ottocento, periodo buio, caratterizzato da un antisemitismo dilagante che sfociò nell’affaire Dreyfus. Un’affascinante Léa Seydoux interpreta Célestine, cameriera parigina confinata a prestare servizio in Normandia, nella tenuta dei Lanlaire. Qui viene bistrattata dalla padrona la quale, colma di un perverso sadismo, non perde occasione per bacchettarla, è oggetto delle avance del viscido e buffo Monsieur Lanlaire e finisce per subire il fascino di Joseph, uomo di fiducia al servizio della famiglia da ben quindici anni, che ha intenzione di portarla con sé a Charburg, sua città di provenienza, dove potranno sposarsi da buoni amici e gestire assieme un locale un tantino ambiguo. L’accattivante proposta di Joseph, alimentata dal fascino che il rude uomo esercita su Célestine, fomenta il desiderio, spingendo la sua immaginazione fino all’immedesimazione nella donna al centro del dipinto di Édouard Manet Un bar aux Folies Bergère.

Jacquot è stato l’ultimo a operare una traduzione del romanzo di Mirbeau, mettendosi a confronto con precedenti illustri: le trasposizioni di Luis Buñuel del 1964 e Jean Renoir del 1946 (che saranno proposte dalla Cineteca nell’ambito della medesima rassegna, domenica 10 e mercoledì 13 aprile). L’autore francese (che ha confessato di prediligere l’adattamento di Renoir), sembra ispirarsi molto alle pellicole precedenti, operando una commistione di elementi appartenenti a queste ultime, a volte riuscita, altre meno. Se nel film di Renoir la dimensione socio-politica è quasi totalmente assente, Jacquot prova a  seguire l’esempio di Buñuel, ma il risultato pare approssimativo, non riuscendo a conferire la carica di cui fu capace l’autore spagnolo, in particolare per quanto riguarda la sequenza finale, durante la quale un folto corteo di nazionalisti destrorsi avanza inneggiando Jean Chiappe, il prefetto di polizia che, tempo dopo, nel 1930, osteggiò l’uscita del suo film L’Age d’Or. Anche il tentativo di richiamare la goliardia e la giocosità del film di Renoir attraverso la figura del capitano, dirimpettaio dispettoso ed eccentrico, dà l’impressione d’essere riuscito a metà, nonostante conferisca momenti di svago al tono serioso della narrazione.

A volte il confronto tra differenti versioni dello stesso testo può risultare inopportuno, ma crediamo non sia questo il caso: Jacquot richiama davvero tanto i suoi “antenati” e, seppur riesca a comporre un’opera degna nella sua interezza, non sopporta lo spessore delle messe in scena precedenti, in particolare quella di Buñuel, forse la più completa e provocatoria, merito di una più esauriente collocazione storica. I tre epiloghi percorrono strade differenti e, nonostante quest’ultimo renda più passiva delle precedenti la figura di Célestine, Léa Seydoux, grazie ad un’interpretazione misurata ed empatica, non patisce troppo il confronto con un personaggio sfaccettato, non facile da impersonare, incarnato in passato da un’ottima Paulette Goddard e una meravigliosa Jeanne Moreau, alla quale la Cineteca di Bologna dedica un piccolo omaggio in occasione del restauro del mese: Ascenseur pour l’échafaud.

Se Renoir denunciava esplicitamente il Journal del titolo, rendendolo elemento diegetico, e Buñuel lo ometteva, Jacquot ne fa metafora per mezzo delle irriverenti risposte che Célestine vorrebbe dare a Madame Lanlaire. Tale escamotage, aggiunto alla varietà di luoghi e situazioni assenti nelle trasposizioni precedenti, rimangono le uniche innovazioni rispetto ai ben più sostanziosi adattamenti passati.

Stefano Careddu