La sequenza iniziale di Operazione terrore (Experiment in Terror, 1962) è quanto di più spaventoso si sia visto in questa edizione del Cinema Ritrovato. Un losco figuro ansimante col volto in ombra, una vittima che si trova incastrata tra il rapinare una banca o l’essere uccisa e che contemporaneamente deve vegliare anche sulla sorella sedicenne. In Operazione terrore la padronanza registica di Blake Edwards si mette a totale servizio dell’orrore: siamo in balìa dei movimenti di luce e buio e del montaggio imprevedibile (un urlo e un corpo che cade e ci si accappona la pelle, anche se si tratta di un tuffo in piscina). Non solo la magistrale sequenza dei manichini, ma in particolare tutte le scene affollate (da quelle in piscina, alla telefonata al diner, al finale con l’uscita dallo stadio di baseball) trasmettono costantemente la sensazione che qualcosa possa degenerare, che il caos possa prendere il sopravvento e con esso le sue cellule malate come Red Lynch, assassino psicologicamente inaccessibile dal movente ignoto e perciò ancora più perturbante. All’opposto, l”efficiente organizzazione” FBI conduce capillarmente il suo lavoro e ha nella figura del Ripley di Glenn Ford la rappresentazione del massimo equilibrio tra giustizia e comprensione delle circostanze.
D’altro canto però si delineano i personaggi quasi ironicamente: Kelly Sherwood (Lee Remick) fa caparbiamente il contrario di ciò che le viene detto (si rivolge all’FBI incurante delle minacce, coinvolge subito la sorella contro ogni buon senso), ha un fidanzato spesso tirato in ballo ma mai partecipe di alcuno snodo determinante, mentre del cattivo si scoprono anche intenzioni e azioni tutt’altro che riprovevoli.
Operazione terrore appare tutt’ora sorprendentemente nuovo, e per crogiolarsi in un ideale connessione con cinematografie di culto più recenti, ci piace pensare che un regista dallo stesso nome del cattivo l’abbia usato come miniera di ispirazioni: difficile pensare a mere coincidenze davanti ad un antagonista dalla voce asmatica come Dennis Hopper in Velluto Blu, a telefoni latori di terrore alla Strade perdute, alla vivace Toby Sherwood che sembra una Audrey Horn ante-litteram, ma soprattutto di fronte a quel cartello che dice “Twin Peaks” nella stessa posizione di un altro sinistramente uguale a cui sarà corso il pensiero di molti di noi.
Chiara Checcaglini