Nell’omaggio che il FFF dedica ad Ari Folman, si è potuto rivedere con più calma The Congress, passato troppo inosservato all’epoca della sua uscita. Il film racconta di Robin Wright, l’attrice in persona, che nel 2013 sta pagando una lunga serie di scelte sbagliate causa del suo allontanamento dalle scene. Ma la Miramount ha in serbo una subdola offerta per lei. Le nuove sperimentazioni in ambito tecnologico permettono di creare una copia virtuale degli attori, imprigionando in un database le loro forme e le loro emozioni. Grazie a questo gli attori non dovranno mai più recitare, ma affideranno la propria immagine alla produzione. Un’offerta paradossale, per non scomparire dal mondo del cinema, scompariranno fisicamente dalle scene. Ma anche un contratto capestro, in cui non si ha più potere sulla scelta dei ruoli, l’attore diventa plastilina nelle mani della produzione, che può letteralmente fare di lui ciò che vuole. Robin Wright è riluttante, ma accetta per poter curare i propri figli, in particolare Aaron che soffre di una grave sindrome che lo porterà rapidamente alla cecità.

Nel 2023 la scansione virtuale è diventata la prassi e tutti gli attori hanno venduto il proprio corpo alle case di produzione. Robin viene invitata al Congresso futurista, dove la Miramount vuole fare di lei una pioniera nella sperimentazione di una nuova formula chimica. Inaliamo con Robin il composto chimico che ci porta a Abraham, cittadina nel deserto dove si tiene il congresso. Veniamo trasportati con lei in un viaggio allucinogeno, in cui, inconsapevoli come la protagonista, rimaniamo stupiti dai numerosi colpi di scena, veniamo presi alla sprovvista dalla narrazione, proviamo l’effetto dalla “libera scelta”, la rivoluzionaria sostanza creata della Miramount, che nel frattempo si è fusa con la società farmaceutica Nagasaki.

Il film presenta un’animazione più ardita e coraggiosa di Valzer con Bashir. Ci si dimentica del disegno pulito del precedente film di Ari Folman e lo schermo si riempie di colori, particolari barocchi, figure improbabili e assurde invenzioni tecnologiche. Anche le citazioni cinematografiche sono portate all’estremo, esplicite e abbondanti. Robin Wright interpreta se stessa in un mondo distorto, in cui sono coinvolti prima solo gli attori, ma poi anche la gente comune, che inalando la “libera scelta” può inseguire i propri sogni nascosti e costruirsi la propria realtà.

Il film, inizialmente, sembra essere una satira sul mondo spietato delle case di produzione, che vedono gli attori come un’immagine da sfruttare per sbancare al botteghino. Privati della componente fisica, gli attori diventano un’entità virtuale, plasmabile a piacimento dalle case di produttive. Una satira spietata ed estrema delle moderne tecnologie, un futuristico racconto della degenerazione delle sperimentazioni in ambito cinematografico. Ma Ari Folman va oltre, usando la premessa del discorso cinematografico come terreno in cui sviluppare un discorso globale. Infatti, la diffusione della nuova droga diventa virale, e coinvolge tutta la popolazione, che insegue sogni illusori. Dalla normalità, tutto il genere umano si converte all’inalazione della “libera scelta” e vive in una fasulla realtà parallela. Una critica ancora più sagace sui sogni delle persone e sui loro tentativi di sfuggire alla realtà del quotidiano, per nascondersi nelle fantasie di un mondo artefatto e perfetto, che vive solo nelle loro menti.

Chiara Maraji Biasi