Come ogni evento cinematografico che si rispetti anche il Future Film Festival possiede una sezione retrospettiva: il focus Welcome Aliens propone quotidianamente pellicole entrate di diritto nella storia della fantascienza e che hanno di conseguenza influenzato quella a venire – come gran parte dei lavori presenti nella programmazione del festival. Dopo aver aperto con Mars Attacks! di Tim Burton, la seconda giornata ha visto protagonista della rubrica Ho sposato un mostro venuto dallo spazio di Gene Fowler Jr.

Bill Farrell sta bevendo con gli amici nella sua ultima serata di libertà: il giorno successivo sposerà l’amata Marge Bradley. Decide di rincasare ma non prima di esser passato a fare un saluto alla futura moglie. In questo frangente Bill sarà rapito da creature extraterrestri che intendono utilizzare i corpi degli esseri umani per evitare l’estinzione della propria specie.

L’occhio dello spettatore coincide con quello di Marge, accompagna la donna nella gioia del matrimonio, nota assieme a lei le prime stranezze di Bill in luna di miele, condivide l’intenzione (poi accantonata) di sfogarsi in maniera epistolare con la madre, per arrivare ai primi dubbi e alla sconvolgente scoperta. Forte e frizzante, il personaggio è contrapposto alla presunta apatia del marito, o meglio dell’alieno che ne ha preso possesso, il quale, nel momento in cui verrà scoperto, si dimostrerà anaffettivo. Questo tipo di creature sono incapaci di provare emozioni, non conoscono il significato dell’amore ma solo dell’orgoglio, che però deve essere messo da parte per un bene che prescinde dal singolo, un bene totale. Ma alla lunga l’abitare un corpo umano e la personalità passionale e coraggiosa di Marge permetteranno a un seme d’amore di germogliare nella fredda anima aliena.

Essendo uscito nel 1958, Ho sposato un mostro venuto dallo spazio risente certamente dell’atmosfera tesa e conflittuale da Guerra fredda (come il più famoso L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel): alieni come metafora dell’incombente pericolo sovietico, quel timore dell’altro che un certo cinema americano ha sempre messo in scena allegoricamente. Il carattere della donna americana renderà inerme la punta di diamante aliena e di conseguenza permetterà una facile cacciata del modesto plotone extraterrestre, di per sé poco minaccioso.

Fantascienza horror di fine anni Cinquanta, con alieni non troppo aggressivi che soccombono sotto la forza del sentimento umano, figlia di una strategia comunicativa che oggi potrebbe far sorridere a chi dovesse commettere l’errore di non contestualizzare storicamente la pellicola. Il fascino dell’effetto notte, con una nuvola fumosa in sovrimpressione che avvolge gli uomini e li fa sparire nel nulla, delle pistole laser che dematerializzano i corpi, dei lampi che, come radiografie, mostrano le reali fattezze dei mostri (scena divenuta pop da quanto è stata enormemente citata) e della telepatia denunciata da un semplice effetto sonoro avvolgente, denotano l’ingegno tecnico e la cruciale importanza che pellicole di questo calibro hanno ricoperto e continueranno a ricoprire per il genere.

Stefano Careddu