In un futuro distopico il mondo è diventato una landa desolata in cui esistono solo il bianco e il nero. Quando un ragazzo dalla pelle colorata rompe questo grigio equilibrio, la sua differenza diventa oggetto di persecuzione e intolleranza. È questa l’inquietante ambientazione da cui prende le mosse On the White Planet, ultimo film d’animazione del regista sud coreano Hur Bum-wook, presentato nella sezione Premiere dei film fuori concorso durante la seconda giornata del Future Film Festival 2016.

Se l’ossessione per la bianchezza e la paura del diverso sono i temi principali del film, Bum-wook li affronta di petto, semplificando all’eccesso le premesse narrative per portarle alle estreme conseguenze: il colore della pelle diventa infatti stigma di un’irriducibile diversità, in un mondo intollerante e rigorosamente monocromatico. La storia di Choi min-je, additato come mostro e disconosciuto dalla sua stessa famiglia, assume i caratteri di un’angosciante escalation di emarginazione e violenza. Nessun personaggio è risparmiato dalla degradazione morale dilagante e persino il protagonista, che vorrebbe fuggire su un pianeta dove esistono i colori, è costretto agli atti più abietti pur di rimanere in vita.

In questa realtà incredibilmente cruda e feroce, l’unica via di fuga per lo spettatore sembra risiedere nella messa in scena ricca e visivamente potente. On the White Planet stupisce per l’eclettismo dei registri adottati e passa con disinvoltura dal disegno da graphic novel a effetti di tridimensionalità. In numerose sequenze sembra forzare i limiti stessi del film d’animazione, rifacendosi apertamente ad un’estetica da videogame: in una scena di grande impatto Choi min-je si intrufola agilmente in una casa mentre lo sfondo bidimensionale scorre alle sue spalle come in un side-scrolling game. Al contrario, l’uso delle tavolozze cromatiche non risulta mai pienamente efficace, nonostante il colore – o la sua assenza –  rivestano un’essenziale importanza sul piano narrativo.

A conti fatti, On the White Planet convince più per la sperimentazione formale che per le modalità di rappresentazione della diversità, e fa forse rimpiangere una riflessione più articolata sul colore e sulla xenofobia a cui il ritmo incalzante della vicenda non sembra lasciare grande spazio.

Maria Sole Colombo