Niente, non ci riusciamo a levare dalla testa I cancelli del cielo  e il suo gigantesco (e al tempo stesso umile, proletario) epos cinematografico. Mentre la versione restaurata continua il suo cammino nelle sale italiane, noi peschiamo dal meticoloso mini-sito del film un pezzo di antologia critica, che ci riporta due voci dissonanti – Fofi con una lettura politica e Ghezzi con una lettura cinema/ciminiana – oltre al breve, ma celeste, “ripensamento” di Assayas. A seguire…

È noto che la copia in circolazione di I cancelli del cielo è incompleta (manca, pare, più di un’ora di film) ed è stata rimaneggiata al montaggio varie volte non tenendo conto delle indicazioni di Cimino. Le ragioni sono altrettanto note: I cancelli del cielo è uno dei tonfi più clamorosi della storia del cinema americano, il più grosso in vent’anni, e dopo quello di Cleopatra che sbancò la Fox questo ha rischiato di sbancare la United Artists, non fosse che questa società è ormai da tempo un pezzetto di multinazionale polivalente. È costato l’iradiddio di soldi, veniva dopo il trionfo (pubblico e Oscar) delCacciatore, ma il pubblico ha detto picche. Oggi, un giudizio sui ‘blocchi’ rimasti (si individuano facilmente grandi vuoti, i personaggi dei tre protagonisti ne restano estremamente travolti, così come la definizione storico-politica della trama) è comunque possibile, approssimato e incompleto anch’esso, ma non troppo incerto. Innanzitutto, I cancelli del cielo non è Greed di Stroheim e neancheLa prova del fuoco di Huston, vittime illustri, in altre epoche, della macchina hollywoodiana, rimasti allo stadio di antologia di brani dal film originariamente realizzato. Cimino ha raffinato le sue capacità di regista di scene complesse, d’azione (i grandi balli collettivi – la festa della futura classe dirigente con cui si apre il film all’università di Cambridge, Massachussetts, 1870, contrapposta a quella della grande baracca dell’Heavens Gate in una contea di immigrati dall’Europa dell’Est, nello Wyoming -, la battaglia-massacro finale, la stazione ferroviaria…), di cui si dimostra accorto maestro, sensibile agli insegnamenti europei, più sovietici e viscontiani che non hollywoodiani. E precisa il discorso sull’America iniziato con Il cacciatore. Ma ha sbagliato i conti e certo non ha capito che i tempi erano cambiati. Nello spazio di pochissimi anni, tre o quattro, l’America che si leccava le ferite del Vietnam è diventata l’America aggressiva e sicura dell’imperialismo reaganiano, con uno di quei bruschi passaggi cui la storia di quel paese ci ha abituato da tempo. Il cacciatore era indubbiamente un film ambiguo, ma a noi era piaciuto perché dimostrava di saper scavare nell’inconscio collettivo americano, intervenendo abilmente sugli stereotipi più profondi di quella cultura. Ne ricordo due, fondamentali: il ‘cacciatore’ De Niro rifiutava alla fine la ‘morale della caccia’, rifiutava la caccia; il ‘duello’ non avveniva tra il bianco e lo straniero (il rimosso, l’istinto, l’irrazionale incontrollabile socialmente e culturalmente) bensì tra il bianco e se stesso, con la scena della roulette russa. Qui, ed è un’idea assolutamente grandiosa, la situazione western classica dei pionieri o dell’esercito assediati dagli indiani è ribaltata altrettanto intelligentemente: sono gli immigrati, i poveri, a. comportarsi come gli indiani nell’assalto a un manipolo di killer assoldati dai proprietari di pascoli e con dentro a guidarli politici e militari con raccordo, addirittura, del presidente degli States!
L’ambiguità del Cacciatore nel suo finale (l’America deve andare avanti, ritrovare coesione dignità orgoglio pur se a partire dal lutto e dalla sofferenza di una guerra eminentemente ingiusta) si scioglie, nella chiara situazione descritta. L’immigrato Cimino racconta ancora di immigrati, ma stavolta dice molto più chiaramente che se essi hanno potuto inserirsi ciò è dipeso dal fatto che a un certo punto si sono organizzati e si sono messi a sparare. Dopo la battaglia, il politico-proprietario salva gli assediati e non infierisce più sugli assedianti perché sono, sul momento, più forti; lo stato dei padroni deve far rientrare la rivolta poiché, se la affronta sempre e solo frontalmente, rischia la rivoluzione. Mi rendo conto che questa fraseologia è un po’ da primi anni Settanta, per l’Italia, e difatti sono certo che, visto sette-otto anni fa, questo film molto sarebbe piaciuto, diciamo, a ‘Lotta Continua’ o ad altri gruppi italiani consimili, ma è proprio questo ciò che al film non è stato perdonato, questa volontà di identificazione con gli immigrati (i proletari) che non sono come nel Cacciatore l’America, ma una parte dell’America, quella degli oppressi, pur dentro la colonizzazione violenta a danno degli indiani (qui assenti, già eliminati da tempo). Questo il pubblico e la critica americani non l’hanno perdonato a Cimino, perché l’opinione pubblica ha da sempre una memoria molto corta.
Il cacciatore
faceva leva su un altro perno che qui fa cilecca: il romance, il romanzo con forti contenuti metaforici e simbolici. Il gioco a tre tra De Niro, Walken e Meryl Streep era di un’intensità e forza che quello tra Kristofferson, Walken e la Huppert non si sogna nemmeno di raggiungere. Certo, ci sono scene mancanti, ma a giudicare dalle presenti (tante) tutti i tre personaggi risultano sfocati, vuote forme banali non ‘simboliche’ né rappresentative. Il romance crolla, per insipienza di sceneggiatura e anche di interpretazione. Anche se intero, I cancelli del cielo non sarebbe stato un grande film, ma resta il fatto che Cimino ha azzardato megalomanicamente un’impresa enorme (se vorrà continuare a far film, questo fiasco dovrà costringerlo a mitissimi consigli), ma che gli ha permesso di togliersi lo sfizio di dire all’America, dalla parte degli immigrati, alcune verità di fondo che il cinema non aveva mai osato affrontare con altrettanta determinazione politica.
(Goffredo Fofi [1981], Dieci anni difficili: capire con il cinema, 1975-1985, La casa Usher, Firenze 1985)

Tre film sono sufficienti per scorgere la costanza ossessiva con cui in Cimino il cinema è trapiantato altrove (sullo schermo? Sulla pellicola? O in cieli su cui proiettare film? O nella mente, visto che il ‘suo’Heaven’s Gate resta in fondo inedito, versione personale e virtualmente invisibile, corpo di reato e feticcio da solaio di casa) di uno spazio/tempo reale sognato per incubi e visioni. Una calibro 20 per lo specialista, introducendo subito il tema dell’amicizia virile, conteneva viaggi e spostamenti che si condensavano nell’effetto allucinatorio (per noi e per gli interpreti del film) in un edificio (una chiesetta) spostato e ricostruito in un altro luogo per salvaguardare un bottino. Primo trasloco e trapianto tutto ‘reale’ e insieme scenografico/filmico, cioè un’azione e un effetto tipicamente ‘filmico’ (spostamento di una costruzione sul set) mostrati come reali e insieme disturbanti. Nel Cacciatore il trapianto riguardava direttamente i protagonisti (sempre legati da amicizia virile) sballottati in ambienti diversi e costretti a vivere come incubo il sogno di scoperta/visione/comunione del e col territorio/natura mostrato nell’ascensione quasi religiosa di De Niro alla montagna dominio del cervo. Ne I cancelli del cielo il trapianto è ancor più immediato e più letterale, per quanto perversamente occulto e fuoricampo: il gigantesco albero della scena iniziale del ballo è stato fatto trasportare da Cimino sul set da un’altra regione, con costi enormi.

Heaven’s Gate è quindi davvero lo spalancarsi di un abisso mitico. Non tanto quello della Storia, o della storia del Cinema in cui già si inscrive (con in più l’effetto cacofonico anagrammatico generatore di lapsus di un nome che disturberà e ingarbuglierà i futuri estensori di saggi e monografie: “Il cinema di Cimino”) ed è stato inscritto come fallimento militare e maledetto. Diciamo che è uno sconfinamento dal territorio stesso del cinema. Cimino lo condivide (negli anni Settanta/Ottanta) con i Kubrick, Herzog, Lynch, Tarkovskij, Syberberg, col Boorman de L’esorcista II e forse col Fellini diCasanova (ma certo più con quello del Viaggio di Mastorna, il ‘Fellini-mai-fatto’), col Coppola produttore. Che la sua scommessa lo destini più precisamente a esiti von-stroheimiani (disastri?) è chiaro, più che dagli eccessi folli e dagli sprechi, dalle mancanze di controllo, dallo spiazzamento un po’ retro della ma figura di regista tra il bimbo e il maudit rispetto alle aspirazioni tycoonesche di Coppola Lucas Spielberg. Cimino non parla di video, di televisione, di nuovi processi produttivi multimediali, e le sue scarse frequenze produttive lo collegano alla figura dell’autore europeo (per giunta, pre-fassbinderiano). Completamente affondato nel cinema, paga integralmente le contraddizioni di chi vuole sfidare la tendenza all’infinitamente piccolo (il punto-linea della definizione televisiva) cercando il parossismo produttivo del ‘grande’. Nella difficoltà di situarsi dentro i generi (Heaven’s Gate è forse un western? Il cacciatore cosa è? E Una calibro 20 per lo specialista sta un po’ stretto anche dentro il ‘genere Eastwood’), cioè di trovare un vero territorio filmico referenziale (operazione che riesce molto bene invece a Lucaspielberg), è il piccolo segno del generale situarsi problematico di Cimino rispetto al cinema stesso. In questo il suo fascino enorme; nella constatazione finale – per lo spettatore – che neanche nel cinema è il territorio di Cimino, o meglio dei suoi film. I suoi film ‘enormi’ annegano nell’enormità e nella piccolezza del cinema. Il trapianto messo in scena sempre non riesce tuttavia mai. Mettere radici nel cinema non sembra consentito a Cimino come non è consentito ai suoi ‘eroi’ (gli immigrati ‘russi’ della provincia americana). Forse per questo tutti i suoi film si aprono su lunghe sequenze rituali/religiose (anche se poi nel primo subito Eastwood getta la tonaca del finto prete), forse per questo il cinema dei suoi film cerca di radicarsi – nei grossi buchi narrativi compatti e prolungati fino a sembrar diluiti, e uniti solo per sfilacciature narrative quasi viscontiane riscattate da un procedimento (nei due ultimi film) difficile da mettere a fuoco e da dettagliare, proprio in quanto paragonabile a successivi spostamenti di fuoco all’interno di un grande quadro in lieve movimento, dove masse e personaggi sono ‘memorie’ che si stratificano più che presentazioni e ‘dati’ per futuri sviluppi narrativi. Né un’altra grande struttura come la famiglia (ancoraggio, peso, garanzia in tutti i sensi per un regista-produttore come Coppola, e naturalmente per l’altro italo-americano Scorsese e per tutta la ex-cormanfactory dispersa) trova posto o viene trovata cercata fuggita nei film di Cimino. L’amicizia virile rinvia a percorsi solitari, primordiali, mitici, a confronti essenziali di pure energie dove si brucia la sicurezza o la rassicurante convenzionalità dei rapporti drammatici e di parentela?
Mentre il disegno complessivo del film (nelle due versioni che si son già viste in Italia, quella distribuita nelle sale e quella ‘lunga’ al Festival di Venezia, nonostante i finali e i montaggi diversi) appare spesso chiaro in trasparenza, tuttavia lo si percepisce continuamente come deformato, perché tutte le linee (gli elementi) sembrano andarsene per conto loro, spingere verso la loro curvatura finché possono. Per lineare e quasi ‘semplicistica’ che appaia la fabula, questa assenza di un padrone (come se il regista-dio-ideatore si fosse poi accontentato del sogno e della memoria) produce affascinantissimi spossamenti, anche puramente tecnici. Il sonoro così oltre che smisurata e involontaria parodia del suono travagliatissimo e multipista, è la follia di un tentativo di ridare l’inaudibilità complessiva del reale, la sua frammentazione non ricomponibile, il suo consegnare, all’orecchio che ascolta la Storia, spezzoni inintelligibili, mozziconi dì discorso affogati in un rumore di fondo naturale che può essere solo quello del territorio stesso che si sposta e del mondo che rotola (in originale – l’originale accusato dalla critica americana di quasi incomprensibilità – il suono di Heaven’s Gate è il più emozionante degli ultimi anni, a livello di Eraserhead, più che di Nashville.
E gli attori? Kristofferson, nonostante e con Walken, e con la Huppert, non è forse l’ottusità dello sguardo come Walken ne è la follia, in ogni caso sguardi poco discorsivi, troppo fondi e poco espressivo/unidimensionali per risultare spettacolari, lineamenti poco spigolosi. Di nuovo, annegare, affogare nel cinema cancellando anche il volto troppo forte e centrale alla De Niro.
E i finali o meglio le versioni del film. Non programmaticamente incerte come in Coppola, incerte e aperte e multiple come quelle di Apocalypse Now. Aperte e incerte invece perché squadernate spellate vive violentate dalla produzione, e perché è difficile immaginare un soggetto (Kubrick?) che, oltre a idearlo, programma fino infondo un progetto come Heaven’s Gate. Allora forse qualcosa di snuff, di very very hard affiora in questo film soavemente legato al palo di Ulisse che passa accanto alle sirene. È lo sguardo sulla prateria sanguinolenta della storia omologata al corpo dei sentimenti e all’impossibilità inanità insensatezza (non ci vorrebbe almeno un Alessandro Magno per I cancelli del cielo? Un condottiero, dei ‘volontari’ in camicia rossa?) del cinema. In scena, l’uccisione di un sogno che si era visto copulare con tanti possibili territori del cinema.
(Enrico Ghezzi, Oltre i cancelli, il cielo, Il Patalogo. Annuario 1983 dello spettacolo, Ubulibri, Milano 1983)

 

Ho rivisto il film poche settimane fa nell’incredibile versione director’s cut restaurata. Ho sempre ammirato Michael Cimino, e ho amato I cancelli del cielo all’uscita – pur con qualche riserva. Oggi, non posso credere di avere avuto anche la minima perplessità riguardo a questo capolavoro. Non soltanto invecchia bene, ma spazza via qualsiasi dubbio: per qualche ragione il passare del tempo (ricordate quella battuta così toccante? What one loves in life are things that fade) fa apparire questo film come il trionfo straordinario e sublime che allora non ero riuscito a vedere. E il modo in cui infine ci arriva attraverso gli echi del tempo lo rende ancora più commovente, persino straziante.

(Olivier Assayas, I cancelli del cielo è al 5° posto della sua top 10 stilata per Criterion, www.criterion.com)