In occasione della grande serata di presentazione del Cinema Ritrovato 2014 – oltre ai tradizionali quiz cinefili – verrà proiettato Sangue bleu di Nino Oxilia, 1914, con Francesca Bertini. Visto che la proiezione vale come anteprima del festival, Cinefilia Ritrovata offre ai suoi lettori il bellissimo testo di Michele Canosa dedicato al film. Segue.

 

LA DAMA CON L’ERMELLINO

“Sangue bleu” (1914) di Nino Oxilia / Michele Canosa

Sangue bleu elegge Francesca Bertini a diva. Ma cos’è una diva? E come si diventa?

Afgrunden (L’abisso, 1910, 750 metri) di Urban Gad per la Kosmorama. Questo film danese è un antecedente. Più sfrontata di Mistinguett, vediamo Asta Nielsen che, eseguendo la coreografia di una Gauchodansen, si sfrega al suo amante per avvolgerlo in una spira di corda (un lazo), quindi lo svolge quasi fosse la bobina di un film, per chiudere con morso vamp sul collo del partner. La diva non nasce dalla spuma del mare, ma viene espettorata dalla metropoli tisica. La scena è primaria, dunque traumatica, e Francesca Bertini la ricorda bene: <<Mi fecero vedere L’abisso con Asta Nielsen. Quel film mi sconvolse>>[1]. Questo è nuovo al visibile dello schermo: un dramma scabroso – moderno – di lungo metraggio – con protagonista femminile. Così, la cinematografia italiana si regola: non smette il peplum e la calzamaglia ma, adesso, con il circo e il costume antico-romano concorrono l’ambientazione moderna, la sartoria elegante e le toilettes à la page.

Questo genere made in Italy in versione alta società passerà alla storia con l’espressione, poi divenuta vieta, di cinema in frac – <<in decolletés, in fracs>>, direbbe Emilio Ghione[2], interprete sodale di Bertini, che di balli malfamati se ne intende (dopotutto anche il valse apache è tango). Oggi questo stesso genere è altrimenti denominato “diva-film”. Comunque sia, in quanto genere, richiede delle specializzazioni e una politica produttiva. Infatti, nel 1912, ad opera di due possidenti (l’avv. Gioacchino Mecheri e il marchese Gian Alberto di Roccagiovine), si costituisce a Roma l’impresa Celio Film. Il direttore artistico e principale realizzatore è il conte Baldassare Negroni; l’operatore Giorgino Ricci; tra gli sceneggiatori Augusto Genina e Nino Oxilia; tra gli interpreti Emilio Ghione, Alberto Collo, Gemma De Ferrari, Angelo Gallina, André Habay… e Francesca Bertini. Soprattutto Francesca Bertini (“prima attrice”). Dal 1912 al 1914, la Casa romana produce venticinque titoli con Bertini – o meglio: intorno alla centralità del suo Nome[3], intorno al suo corpo auratico, e a quella sua luna storta, espressione meno profonda della scollatura che le fende la schiena. Sangue bleu è di fatto l’ultimo film dell’attrice per la Celio (poi solo un altro: Nella fornace, 1915); Negroni se n’era appena andato; l’inscenatura è di Nino Oxilia, che qui profila le sue modanature di luce e imprime il suo squisito spirito geometrico.

Elena (Francesca Bertini), principessa di Montvallon, ha una piccola figlia e un marito; il marito ha un’amante, la contessa Simone de la Croix. Elena scopre la tresca nel corso di un ricevimento (elegantissimo) presso la sua dimora gentilizia (neoclassica, superba, con smisurati pavimenti a scacchiera). Finita la festa, vediamo un primo défilé: la principessa – sola, sguardo perso nel vuoto – avanza lungo la profondità di campo, dal fondo di un esteso corridoio zebrato di luce. Questo spazio è un dispositivo: nel percorso, Elena appare/scompare, emerge/dilegua, incede sonnambolica fino in primo piano sorretta da una pura alternanza di ombra e luce (proveniente dalle finestre laterali): una tale creatura esiste provvisoriamente solo grazie a questa sfilata intermittente (cioè fotogrammatica: flickering), qui offerta a figurazione di un’anima afflitta, cioè sospesa alla sua penosa opzione: o donna o madre.

Cambio di scena, cambio di abito. La principessa e il marito sono dal procuratore per dirimere la questione coniugale; di fronte al legale, Elena se ne sta seduta in abito fashionable con un manicotto di pelliccia in grembo: questa dama-con-l’ermellino, infine, si risolve ad accordare il divorzio (ecco perché siamo in Francia!) a condizione che la figlioletta resti a lei affidata. Cambio di scena, cambio di abito. A questo punto si intuisce che si tratta di un principio di montaggio e presiede all’intero film (se ne contano almeno quindici). Da gentildonna impeccabile, Elena partecipa a una festa di beneficenza a casa del marchese di Bengirage. Qui, come per scherzo, improvvisa una scenetta filodrammatica con l’attore Jacques Wilson; ha talento, la principessa, non c’è dubbio; tutti si complimentano. Arriva un telegramma: la vecchia madre di Wilson che abita in campagna è in punto di morte; Wilson non sa come raggiungerla; la principessa è anche generosa (per lignaggio) e si offre di accompagnarlo in auto. Qui sorge un equivoco, che in realtà è solo l’esito di un perfido piano della contessa La Croix: due spioni fotografano Elena e Wilson in presunto atteggiamento compromettente. Per la pricipessa, comincia la china. Il principe-consorte, sulla base della foto proditoria, chiede e ottiene la restituzione della piccola Diana. In un immenso salone (totale), cosparso di sontuosi tappeti e studiatissima luce, ha luogo la scena madre dei messi del tribunale che portano via la bambina; in primo piano, Bertini in posa straziata (iconografia del dolore per lutto): il capo nascosto tra le braccia e le braccia lungo la spalliera di una sedia, per non cadere esanime. Scena, questa, propriamente melodrammatica, poi puntualmente teatralizzata – reduplicata en abyme – nel finale di una Madama Butterfly, a cui Elena si presta in una rappresentazione da café-concert, applauditissima.

Pure, le doti di interprete della principessa saranno la cagione della sua caduta. Chi ne approfitta è l’attore Wilson, che si rivela un farabutto: Elena cede alle sue insistenze, si lascia derubare dei gioielli, e così cala in disgrazia. A Montecarlo, Wilson perde tutto alla roulette. E, giacché ci siamo, il film esibisce grandiose inquadrature della sala da gioco, con riprese dall’alto e panfocus, degne di quelle scene dello stesso casino che renderanno celebre Feu Mathias Pascal (1925) di Marcel L’Herbier. Intanto Elena ha appreso che la piccola Diana si trova a Cannes. La vediamo che, a piedi, mena disperatamente verso il remoto domicilio della figlioletta: cammina, Elena, sulla strada polverosa per forza d’inerzia, preceduta da una crudele camera-car che presto l’abbandona senza remissione; poi, imperterrita, seguendo la proda, Elena taglia l’inquadratura, di profilo, contro il mare, contro la luce, sempre costretta in un soprabito lungo completato da un cappellino piumato che rendono la composizione magnificamente incongrua e più angosciosa… Wilson, intercettando l’intenzione della principessa di vedere la figlia, la ricatta, e la costringe a danzare in un locale pubblico. Uomini-sandwich annunciano l’evento: il “tango della morte” danzato dalla principessa di Montvallon. È uno scandalo e un’autentica abiezione; per Elena è toccare il fondo.

In Italia, proprio nel 1914, il tango è stato appena introdotto ed è subito fatto oggetto di una proterva crociata da parte della stampa cattolica. (Altro motivo, questo, per svolgere il film in Francia.) Il tango è considerato un ballo sudicio, peccaminoso, immorale; persino Marinetti, con involontaria precisione, lo deplora: <<Mimica del coito per cinematografo>>[4]. Nel film, la scena sul praticabile (d’ambientazione argentina?) coincide frontalmente con lo schermo, così che il pubblico cinematografico viene a coincidere con il pubblico del café-concert (tra gli spettatori, il principe) accorso per assistere al numero d’attrazione: Francesca Bertini fuma spavalda, sceglie lei il partner (un gaucho), quindi esegue per intero i passi della danza spudorata; alla fine, secondo copione (tango della morte), irrompe Wilson armato di coltello: Elena esce dalla finzione e rivolge l’arma contro il proprio petto. – Ecco cos’è una signora: sangue bleu. Ecco cos’è una diva: italiana.

Clausola. Il principe accoglie in casa la donna ferita; al capezzale, la bambina getta le braccia al collo della madre (si è riavuta: la coltellata non era mortale); il marito, contrito, stringe a sé la consorte (in camiciuola); la mamma e la bambina lo abbracciano forte, fin quasi a soffocarlo, a cancellarlo. Francesca Bertini, compiaciuta, guarda in macchina. Fine.


 

[1] Bertini su Bertini, in G. Mingozzi (a cura di), Francesca Bertini, Bologna/Genova, Cineteca di Bologna/Le Mani, 2003, p. 50.

[2] E. Ghione, Memorie e Confessioni (15 anni d’Arte Muta), apparso su “Cinemalia”, 1929, ora in E. Ghione, Scritti sul cinematografo, a cura di D. Lotti, Roma, AIRSC, 2011, p. 41.

[3] Per l’anagrafe Francesca Bertini è Elena Seracini Vitiello.

[4] F.T. Marinetti, Abbasso il tango e Parsifal! Lettera circolare ad alcune amiche cosmopolite che dànno dei Thè-tango e si parsifalizzano, <<Lacerba>>, 15.01.1914, p. 27.