In pieno svolgimento in questi giorni, la sezione cinematografica di Gender Bender propone parecchi inediti di qualità, tra cui The Duke of Burgundy.  L’intera pellicola gira attorno alle vicende di Cinthya (Sidse Babett Knudsen) ricca entomologa – il titolo del film si riferisce infatti a una specie di farfalla – proprietaria di un’elegante tenuta e la sua domestica Evelyn (l’italiana Chiara D’Anna). Durante i titoli di testa lo spettatore accompagna Evelyn lungo la strada che percorre giornalmente in bicicletta per recarsi alla proprietà. Cinthya apre la porta e comincia a inveire sottilmente contro la sottoposta: sembra di esser di fronte a una versione moderna di Cenerentola e della matrigna, la domestica è accusata di essere in ritardo e di non adempiere ai propri doveri casalinghi, per questo sarà punita verbalmente e corporalmente. Ben presto però sarà svelato l’artificio: è tutta una messinscena, le donne sono amanti e quanto visto sullo schermo fino a quel momento altro non è che un gioco perverso tra le due. Comincia così la vera narrazione a tinte sadomasochiste, in cui gli attori in campo ricalcano gli elementi facenti parte della dialettica servo/padrone. Cinthya dà ordini, è severa, Evelyn li esegue, ma non fino in fondo, lasciando sempre un motivo per essere punita dalla dominatrice. Lentamente lo sguardo dello spettatore viene incanalato alla comprensione delle perverse dinamiche interne al ménage: la sottoposta scrive giornalmente delle brevi lettere contenenti le istruzioni per la compagna, dimostrandosi vera conduttrice del gioco: è lei che induce Cinthya a vestirsi in un certo modo, a legarla e chiuderla dentro una cassapanca, a “sedersi sopra di lei”. La perversione e il feticismo sembrano essere le uniche armi con le quali far fronte a una vita priva di stimoli, piena di borioso benessere e di agiatezza, un modo per tenere acceso il desiderio sessuale e amoroso, che invece finisce per diventare l’esatto opposto: l’ingresso in un’inesorabile routine che può essere spezzata solamente dalla semplice sobrietà di un rapporto comune, fatto di pigiami comodi, ma poco attraenti, abbracci e carezze. Ma si creerà un circolo vizioso e anche la normalità, prima o dopo, tedierà.

Peter Strickland, rinomato autore inglese, utilizza diversi registri stilistici, cita Peter Greenaway e si rifà al cinema erotico italiano degli anni Settanta, dopo aver reso omaggio anche nel suo film precedente, Berberian Sound Studio (2012), al genere horror di casa nostra. Mette in scena il rapporto tra amore e perversione, giocando (a volte sapientemente, altre meno) con gli elementi che il mezzo espressivo gli offre: la musica e la luce contribuiscono a creare atmosfere tese, vicine al thriller, l’utilizzo di inquadrature strette, l’attenzione quasi feticista per il dettaglio, la negazione di scene di nudo e la scelta di determinati punti di vista servono a soddisfare il voyeurismo che lo spettatore si aspetta da un film appartenente a questo genere.

Per l’uomo non sembra esserci spazio, le due donne invadono lo schermo e la scena, relegando tutte le altre figuranti a ruoli marginali, di contorno, rimarcando il dominio assoluto del proprio cosmo, cornice dell’amore perverso e fornendo due prove attoriali di alto livello. Infine, dunque, un viaggio che esplora le menti di due donne dai gusti non convenzionali, fotografato con maestria, e che strizza l’occhio a un certo cinema del passato.

Stefano Careddu