Continuiamo la serie di approfondimenti su Rebel Without a Cause restaurato e tornato in prima visione. Dopo il primo post dedicato ad alcuni materiali archivistici e critici, proseguiamo ora con la cinefilia. Nick Ray fu, lo sappiamo, uno dei grandi autori amati dai “Cahiers du Cinema”. Nel corso del tempo, però, James Dean e Gioventù bruciata furono entrambi fagocitati dal culto e dalle letture sociologiche. Eppure, all’epoca, Eric Rohmer scrisse un bellissimo pezzo sul film, che riportiamo a seguire.

“Deploriamo il fatto che i distributori francesi abbiano pensato bene di affibbiare come titolo, all’ultimo film di Nicholas Ray, questo non-senso, questo mostro grammaticale costituito dall’amalgama (non oso dire l’espressione) La Fureur de Vivre. È brutto, è volgare e inoltre, a rigore, non significa niente. Il titolo americano, invece, è sobrio, giusto; pur non rivelando la chiave dell’opera, chiarisce, come si deve, le intenzioni dell’autore: Rebel Without a Cause, ribelle senza causa, la causa, cioè, per la quale si combatte.
Il lettore dei ‘Cahiers’sa che consideriamo Nicholas Ray come uno dei più grandi – il più grande, direbbe Rivette, ed io lo seguirò volentieri – di quella nuova generazione di cineasti americani che si è formata dopo la guerra. Malgrado l’apparente modestia del suo discorso, è uno dei pochi ad avere uno stile, una visione del mondo, un senso della poesia personali: è un autore, un grande autore. Scoprire una costante che attraversa tutta un’opera è un’arma a doppio taglio: prova di personalità ma anche, in certi casi, di aridità. Tuttavia tanti e tali sono i condizionamenti che la produzione impone al cineasta, e così numerosi gli ‘imprenditori’, i ‘direttori di produzione’ e i buoni ‘capomastri’, che la presenza di un leitmotiv è, a priori, un indizio positivo. La diversità dei soggetti trattati da Nicholas Ray, la ricchezza di variazioni con cui riveste i suoi tre o quattro grandi temi preferiti potrebbero rendere più arduo individuare la sua originalità rispetto a quella di certi suoi concorrenti. Impossibile attaccare sulla sua morale una comoda etichetta, come su quella di John Huston. Non sono i problemi, alla maniera di un Brooks, che lo interessano, ma gli individui. Nessuna traccia delle sottigliezze psicologiche tanto care a Mankiewicz, né del lirismo folgorante, di quello che, come in Aldrich, vi stordisce al primo impatto. Il suo ritmo è lento, la sua melodia molto spesso monocorde, ma tratteggiata in modo così preciso, con uno svolgimento così avvincente, che non possiamo distrarci un solo istante. Anche i pezzi di bravura, per quanto brillanti, non emergono che in seguito ad un lento crescendo. È un’arte di ‘rapporti’ più che di ‘esplosioni’.
Non solo lo spirito di questo film è simile a quello dei precedenti, anche le situazioni presentano analogie molto precise. La giovinezza dei protagonisti, il loro ardore ostinato sono gli stessi dei personaggi di I bassifondi di San Francisco e di La donna del bandito. Il tema della violenza l’abbiamo già incontrato in Neve rossa e in Il diritto di uccidere. L’eroismo inutile di James Dean è quello di Mitchum in Il temerario o di Cagney in All’ombra del patibolo. Il personaggio interpretato da Nathalie Wood non è molto diverso, nonostante la differenza di età, dalla Joan Crawford di Johnny Guitar. Anzi, dirò di più: tutte le eroine dei suoi film, senza eccezioni, da Catie O’Donnel a Gloria Granarne, da Susan Hayward a Ida Lupino, da Viveca Lindfords alle due già citate, acquistano, sotto la sua direzione, una certa somiglianza fisica, abbastanza sorprendente. Nicholas Ray è forse il solo poeta tanto della violenza quanto dell’amore: è il fascino particolare di questi due sentimenti che lo ossessiona, più che lo studio della loro genesi e delle loro più o meno immediate ripercussioni. Non il furore, né la crudeltà, ma quella particolare ebbrezza in cui ci immergono un’azione fisica, una situazione, una passione violenta. Non il desiderio, come nella maggior parte dei suoi colleghi americani, ma il misterioso accordo che unisce due esseri umani. A tutto ciò aggiungerci un senso della natura, distinguibile sullo sfondo – in senso proprio e figurato – in perfetto accordo con il suo temperamento, più attento agli aspetti coloristici – anche nei film in bianco e nero – che a quelli plastici.
E poi, nessun regista sa imprimere ai propri personaggi un’aria di famiglia così evidente. Sono segnati dal marchio della stessa fatalità, dello stesso male morale o fisico, ma non si tratta esattamente di tara o di decadenza. Guardate quei volti femminili dalla pelle soave, ma con le palpebre cerchiate e le labbra pesanti, quelle figure di uomini atletici, i Ryan, i Derek, i Mitchum, schiacciate o, piuttosto, come raccolte su se stesse. James Dean spinge ancora più in là questa immagine, crisalide non ancora del tutto liberata dal suo bozzolo. Ripiegamento su se stesso? Solitudine più subita che voluta, angosciosa ricerca d’affetto, d’amore, di amicizia. Parlavo, poco fa, di uno sviluppo lineare: ma non si tratta di una di quelle belle linee rette che sono tipiche di Hawks, di quell’ampio cammino dell’epopea con le sue andature tranquille e i suoi portamenti alteri. Qui tutto è circolare, dai gesti d’amore al moto degli astri, dagli sguardi avvolgenti – più di quanto non siano sfuggenti – agli errabondi inseguimenti, fino a quelle morti che chiudono il cerchio e restituiscono i personaggi alla loro primitiva innocenza. Ecco che cosa manca a questi uomini-bambini: quella sorta di verginità di cui i narratori dei racconti di avventure rivestono di solito i loro personaggi. Né hanno la rassegnata compiacenza o la volontà di abiezione dell’uomo del romanzo moderno. Non sono neanche del tutto colpevoli…
Poeta, dunque, Nicholas Ray lo è senz’altro, ma è sul carattere tragico – e non soltanto lirico – del suo ultimo film che vorrei, ora, mettere l’accento. Innanzi tutto per la sua forma, aspetto superficiale, ma non per questo trascurabile. Rebel Without a Cause è un vero e proprio dramma in cinque atti. Atto primo. Esposizione: due adolescenti e una ragazza sono stati presi dalla polizia durante una retata. Intervento dei genitori. La questione si pone immediatamente sul piano morale e vi resterà per tutto il resto del film: perché questa ribellione? Non ha neanche quella sorta di profondità che caratterizza l’assurdo perseguito in quanto tale. E non è nemmeno il semplice sussulto di giovani animali non ancora completamente domati. È l’onore di questi ragazzi e di questa ragazza che è in gioco, un onore erroneamente concepito, ma che non potrebbe essere diverso, perché l’ambiente e le circostanze non gli concedono un campo d’esercizio più nobile. Certo, il discorso è un po’ appesantito da un eccesso di psicanalisi ingenua. Ma non credo che vada intesa come una spiegazione o come una giustificazione: fa parte dello sfondo di vita americana. Questa è per lo meno la mia opinione a visione ultimata: questa mescolanza di elementi mi ha un po’ infastidito, sul momento, come pure una certa mancanza di pudore, una certa debolezza, direi anzi, addirittura stupidità, nei personaggi. Sono così, è il dramma che lo esige. Perciò lasciamo perdere e passiamo all’atto secondo. Il nostro eroe principale, interpretato da James Dean, ha dunque promesso di comportarsi bene e va a scuola. Sarcasmi dei suoi compagni che conoscono le sue pretese di “duro”. Primo intermezzo lirico con la lezione al planetario, quell’evocazione da apocalisse che riesce appena a velare di inquietudine o di finta indifferenza lo sguardo vuoto dei nostri studentelli. Idea piuttosto banale, sulla carta, ma forte e profonda una volta realizzata, rivestita, come tutto quello che la segue, di gravità e, nello stesso tempo, di derisione. All’uscita nuove provocazioni. Dean cerca di evitarle, ma non sottrarsi è una questione d’onore, e non del suo onore di galletto di provincia, ma, lo sentiamo, dell’onore tout court. Lotta al coltello la cui durezza, unita alla bellezza del paesaggio su cui si staglia, fa dimenticare che non è che un gioco da ragazzi. E non è tutto: la seconda manche deve essere giocata la sera stessa con un esercizio ancora più assurdo e pericoloso.
Sarà l’atto terzo. L’intreccio, fateci caso, ha avuto finora come molla principale la volontà dei personaggi: sarà così fino alla fine. L’eroe abbandona momentaneamente il campo – si rifugia, cioè, in famiglia – per meditare. Poi va al duello. Ancora una bravata, notturna questa volta. Colpo di scena che rimette in moto l’azione: si tratta di far precipitare l’auto in mare e di saltare all’ultimo momento. L’avversario si uccide. Sbandamento. Atto quarto. Dean ha salvato l’onore e ha conquistato l’amore del flirt della vittima, la ragazza del commissariato interpretata da Nathalie Wood. Ritorna a casa, dichiara ai genitori l’intenzione di costituirsi alla polizia. Questi lo dissuadono. Questa viltà lo disgusta. La debolezza del padre non “spiega” solamente la presenza, nel figlio, di questo “complesso” dell’onore e di questa vanagloria morbosa: li giustifica, nel senso morale del termine, li reclama, li esige. Violenza, scene sgradevoli trattate con una rara franchezza. Va al commissariato, ma la polizia non lo vuole ricevere. Nel frattempo i suoi compagni, che temono che lui li tradisca, lo stanno cercando. Il suo unico amico, un brunetto curiosamente chiamato Plato (Sal Mineo), dopo vari incidenti riesce a raggiungerlo: è l’ultimo atto, la notte, in una villa abbandonata che fa pensare a Neve rossa o a Johnny Guitar, Secondo intermezzo lirico: Nathalie Wood ha raggiunto i due ragazzi. Scena d’amore a lume di candela nella stanza vuota; angoscia e pace nella notte; al di là di un certo infantile cinismo, primi turbamenti, primi pudori: bellezza dei baci e delle carezze. Di fronte alla Donna il nostro eroe di poco fa diventa il ragazzino che non era riuscito ad essere con i genitori, ma, nello stesso tempo, scopre le sue responsabilità di uomo. L’erotismo di Ray sarà torbido e confuso quanto si vuole, ma che importa: anche su questo aspetto lo psicanalista avrà il suo da fare. Ma senz’altro non potrà rendersi conto dell’emozione che proviamo, noi spettatori, nel vedere i liceali del pomeriggio prepararsi alla fine a un combattimento fisico e morale degno di questo nome… E noi ci lasciamo andare. Non solo ‘agli eventi’ (che a questo punto precipitano: arrivo dei compagni, lotta con Mineo che, impaurito, spara, irruzione della polizia, inseguimento nella boscaglia); o alla grandiosità teatrale, nel senso positivo del termine, della messa in scena (le auto con i fari accesi che circondano il planetario, le intimazioni, il dialogo nell’ombra durante il quale Dean cerca di riportare il compagno alla ragione), o la tragicità della conclusione (quando un poliziotto spara a Plato non appena questi appare in cima alla scala stringendo nervosamente la pistola che Dean, a sua insaputa, aveva scaricato). Ci lasciamo andare totalmente; abbiamo soppresso la distanza che, prudentemente, mantenevamo ancora tra noi e i personaggi. Le loro ragioni son le nostre, ed anche il loro onore e la loro follia. Sono usciti, per impiegare il linguaggio alla moda, dall’universo dell’inautentico. Hanno acquisito, meritato quella dignità di eroi tragici che all’inizio non potevamo certo assegnare loro.
Quel che mi piace in questo film è che la parola onore, pur uscendo dalla bocca di esseri infantili, fragili, piccolo-borghesi, non per questo brilla meno del suo splendore puro e inalterabile; è che questi ragazzi, come i campioni del rodeo e i fuorilegge della prateria, ne hanno conservato il senso tenace, benché, peraltro, la loro vanità, la loro sciocca ostinazione, la società, la morale o che so io, insomma il destino li condanni. Non sono del tutto colpevoli, ma neanche del tutto innocenti, macchiati, se non altro, della colpa del loro secolo. È compito dei politici e dei filosofi indicare all’umanità orizzonti più limpidi di quelli entro cui questa ha deciso di rinchiudersi, ma la missione del poeta è quella di non prestare fede completamente a questo ottimismo, di estrarre dalla feccia del suo tempo la pietra preziosa, di insegnarci ad amare senza vietarci di giudicare, di mantenere sempre vivo in noi il senso della tragedia. Feci queste riflessioni, un giorno, in un cinema di periferia che proiettava Il diritto di uccidere. Mi ritornano in mente ad ogni visione di un nuovo film di Nicholas Ray, e di questo soprattutto, il suo capolavoro.

Eric Rohmer, Aiax ou le Cid, “Cahiers du cinéma”, n. 59, maggio 1956, pp. 32-36, tr. it. in Il cinema secondo la Nouvelle Vague, a cura di Giovanna Grignaffini, Temi, Trento 2006.