Arrival, il nuovo film di Denis Villeneuve, ci dà il gancio per parlare di un tema molto caro alla fantascienza che non possiamo però rivelarvi in questo incipit per evitare qualsiasi tipo di spoiler. Comunque, riguarda anche i videogiochi. SPOILER ALERT!

Da piccolo ero ossessionato dai viaggi nel tempo. Non mi perdevo una puntata di Quantum Leap; ricordo che dopo aver comprato il primo videoregistratore noleggiai un film quasi sconosciuto che si intitolava Ritorno alla quarta dimensione e lo guardai sette volte in due giorni. Giuro. Ero affascinato dai tasti rewind e fast forward e quel VHS era la mia cavia da salotto. Viaggiare nel tempo è un po’ come voler fare l’archeologo o l’astronauta: ci sono passati tutti.

Per questo ho amato Arrival. Una fantascienza di alto livello che gioca col linguaggio (reale e cinematografico) e con la concezione del tempo (reale e cinematografica). Il film di Villeneuve, pur non avendo direttamente a che fare coi viaggi nel tempo, lambisce quegli spazi oscuri che riguardano la nostra percezione del mondo. Una realtà in cui capitolano concetti come prima e dopo, in cui il tempo letteralmente esplode. Dato che sono un videogiocatore, volente e nolente, finisco sempre a parlare di videogiochi, a guardare i film con occhio videoludico. Non c’entra niente, ma mentre scorrevano i titoli di coda di Arrival ho subito pensato a Virginia, un gioco che da metà in poi esplode. Tematiche completamente diverse, ma sia Arrival che Virginia mettono in discussione il concetto di linearità: strutturare diventa superfluo, la narrazione non ha più bisogno di cronologia.

Una variabile tanto cara alla fantascienza, sia cinematografica che videoludica. Qui però si parla principalmente di videogiochi, per cui il micro percorso non poteva che iniziare da Chrono Trigger, capolavoro del 1995 targato SquareSoft. Un gioco di ruolo giapponese che vede i giocatori impegnati a salvare il pianeta nella maniera più classica possibile: viaggiando in epoche differenti. Approccio classico, paradossi compresi, ma di altissima qualità. Anche in The Legend of Zelda: Ocarina of Time (1998) si torna a viaggiare avanti e indietro nel tempo. In questo caso viene posta l’attenzione sul prima che modifica il dopo, per cui tutte le meccaniche ruotano intorno alla necessità di far dialogare in maniera proficua i due piani. Majora’s Mask, due anni più tardi, porterà all’estremo la formula: c’è la versione cattiva della luna di Méliès che minaccia di abbattersi su Termina. Il giocatore ha solo tre giorni (virtuali) per risolvere il problema, pena la fine del mondo. Si tratta di tornare indietro al primo giorno prima che scocchi la fine del terzo, più e più volte: una sorta di concezione cumulativa del tempo.

A riavvolgere il tempo – nel caso specifico per porre rimedio ai propri errori – ci pensano anche i protagonisti di Life Is Strange e Braid. Due genere totalmente diversi – uno è un’avventura grafica, l’altro un platform-puzzle – legati dalla stessa urgenza di tornare sui propri passi. Ve lo immaginate un mondo in cui ogni evento può essere cancellato e rivissuto in tempo reale? Una sorta di what if della quotidianità.

Anna Anthropy, nel browser game Queers in Love at the End of the World (2013), racchiude l’esperienza ludica in un conto alla rovescia di dieci secondi. Il mondo sta per finire e il giocatore ha letteralmente dieci secondi per decidere come comportarsi col proprio partner. La narrazione può prendere vie differenti, ma sempre all’interno di quei dieci secondi che anticipano la fine del mondo, e del gioco. “If you only had ten seconds left with your partner, what would you do with them? What would you say?”, si interroga la Anthropy.

In Passage (2007), Jason Rohrer racconta la vita dall’origine alla morte attraverso una passeggiata di cinque minuti, non priva di ostacoli, dalla sinistra alla destra dello schermo. Il personaggio invecchia progressivamente man man che la vita trascorre: passato e futuro vengono misurati in base alla porzione di schermo che rimane alla destra e alla sinistra del personaggio. È la centralità dell’individuo rispetto al contesto/schermo a definire la collocazione temporale. La morte è qualcosa di ineluttabile, cui non si può sfuggire, come suggeriva anche The Graveyard (2008). Ci aveva provato Eike, il protagonista di Shadow of Memories (2001), a ingannare la morte viaggiando nel tempo. Com’era andata a finire, però, lo lascio scoprire a voi.

Andrea Dresseno