Di ritorno da un affollato workshop a Locarno, Edgar Reitz giunge a Bologna per presentare il quarto capitolo, ancora inedito, del suo epocale romanzo per immagini. Die Andere Heimat verrà proiettato tutto in una volta al cinema Lumière, con spuntino e pausa in mezzo. Presentato a Venezia, il film ha raccolto recensioni per lo più entusiaste. Riportiamo in seguito l’analisi comparsa della rivista (a noi vicina) Cinergie.

“Ovviamente molto atteso dagli appassionati della più importante saga d’autore del cinema europeo nel dopoguerra, Die Andere Heimat viene ormai nominato, in maniera sbrigativa, Heimat 4. A differenza delle attese, tuttavia (Edgar Reitz aveva più volte ammesso di avere un soggetto pronto per un nuovo Heimat ambientato dall’11 settembre 2001 in poi, poco dopo la conclusione cronologica del terzo capitolo), ci troviamo di fronte a quello che a Hollywood definirebbero prequel. L’ambientazione è la solita, il villaggio di Schabbach, ma lo sfondo è quello della Germania rurale di metà Ottocento, in un periodo di fame e povertà, segnato dall’emigrazione verso il lontano Sud America – in direzione opposta al terzo Heimat, che raccontava l’immigrazione est-europea in Germania nel dopomuro. Tra 1842 e 1843, Reitz narra la storia di due fratelli di fronte al più difficile dei dilemmi: restare o lasciare la propria terra, con genitori vecchi e malati e una modernità che sembra sempre alle porte ma non giunge che attraverso echi lontani. Il protagonista, struggente, di Die Andere Heimat è l’ennesimo protagonista sognatore e idealista di Reitz, una sorta di incunabolo di Hermann Simon in Die Zweite Heimat. Jacob, questo il suo nome, dal temperamento romantico, sogna di trovare il futuro in Brasile e spera di fuggire insieme alla ragazza che ama, figlia di uno scalpellino del villaggio. Il ritorno del fratello Gustav dal servizio militare cambia però le carte in tavola, e colui che più sogna una vita lontana da Schabbach sarà la persona maggiormente vincolata al villaggio natìo. In mezzo, nelle circa quattro ore del capitolo più breve dell’intera saga, matrimoni, funerali, nascite e decessi, litigi e amori, feste e insurrezioni, carestie e primavere, colpi di scena e diritti negati, secondo lo straordinario impasto di melodramma famigliare di ispirazione letteraria e cinema della modernità che ancora oggi funziona da tutti i punti di vista.

Reitz, rispetto a un terzo capitolo denso ma interlocutorio, sembra in questo caso avere idee chiarissime, e nella Germania del 1842 – senza peraltro eccedere in didascalismi – individua un passaggio storiografico epocale, tra Prussia e provincia, artigianato e progresso tecnologico, collettività e identità, aspirazioni personali e regole comunitarie. Jacob, come altri membri della famiglia Simon nei capitoli precedenti (anzi, futuri dal punto di vista diegetico), funge da detonatore, un romantico malinconico, un dotto tra i contadini, un alieno nel suo stesso villaggio, un frutto caduto lontano dall’albero genealogico, e per questo  motivo un prisma perfetto (in quanto personaggio insoddisfatto e trasfiguratore) per adottarne il punto di vista. La passività di Jacob, che subisce gli eventi della microstoria di Schabbach invece di dirigerli (salvo finire in galera per la più sciocca e inutile delle insubordinazioni), diventa così il plasma che scorre nel film. Anche questa volta Reitz alterna il bianco e nero – largamente prevalente – al colore, che interviene solo di fronte ad oggetti di valenza simbolica o a descrizioni naturali fatte da qualche personaggio.

A un certo punto compare anche Werner Herzog, nei panni nientemeno che di Alexander von Humboldt, il naturalista fratello minore di Wilhelm, che aveva viaggiato in Sud America classificando piante, animali e rocce. Il carteggio tra Jacob e von Humboldt dice della vicinanza paradossale tra un contadino erudito dell’Hunsruck e la grande borghesia tedesca, destinati – come nel film – a non incrociarsi se non per un attimo. Jacob e Alexander non si parleranno, ma von Humboldt avrà comunque l’occasione di misurare con un visore un campo naturale, in fondo al quale si scorge un pesano con largo cappello, interpretato da Edgar Reitz. Ecco, mentre Herzog fissa Reitz attraverso un mezzo oculare, noi ci rendiamo contro che, ben lungi dall’essere un vezzo tra vecchi eroi del nuovo cinema tedesco, la sequenza trasmette tutta la passione e la competenza del creatore di Heimat, ormai ottantenne, che si rifugia nella storia ottocentesca del suo Paese per raccontare ancora una volta, e forse per l’ultima, l’universo umano, antropologico, linguistico e geografico del concetto di patria”.

Roy Menarini