1957 Hartford, Connecticut. Nella dorata cornice di un mondo patinato e dal cromatismo acceso ed esasperato si muovono i personaggi della famiglia Whitaker: Cathy perfetta casalinga e madre premurosa, Frank, direttore vendite della emergente ditta Magnotech, e i loro due deliziosi bambini. Eppure ben presto il plot ci svelerà che nonostante la perfezione apparente, sia ben lontano il Paradiso per i suoi protagonisti.
Dopo il debutto nel 1991 con Poison, Todd Haynes non è stato un regista troppo prolifico, ed è per ciò forse che, rivedendo Lontano dal Paradiso a distanza di 15 anni dalla sua uscita sul grande schermo (2002), sorge naturale un parallelismo con l’ultimo suo lavoro, il magnifico Carol, 2015, molto apprezzato al 68° Festival di Cannes. Prix d’interprettation feminine per Cate Blanchett, così come nel 2002 fu Migliore interpretazione femminile per Julianne Moore alla Mostra di Venezia: due sintomatici premi alle protagoniste femminili delle difficili storie di Haynes. Storie di una ribellione sociale sotterraneamente operata da alcune coraggiose donne degli anni ’50.
Donne che, in entrambe le pellicole, sono capaci di battersi per i diritti dei diversi (neri od omosessuali che siano) o di dissentire dalle norme del buoncostume asfissiante ed impersonale della loro epoca. Nonostante la sua apparentemente superficiale matrice mélo, Lontano dal Paradiso è una pellicola intrisa di numerosi sottotesti, con un evidente rimando alle commedie romantiche di Douglas Sirk (Lo specchio della vita o Come le foglie al vento) ed una dichiarata ispirazione cromatica e fotografica di matrice hopperiana.
I personaggi si muovono quasi impercettibilmente all’interno della loro difficile storia di paradiso negato, galleggiando sulla superficie ipocrita di un mondo sfarzoso e chiassosamente colorato. Come spiega il curatore della rassegna Rinaldo Censi: “Ed Lachman, il famoso direttore della fotografia, regista e fotografo, ha una vera adorazione per Edward Hopper, tanto che alcuni anni fa a Madrid, durante una mostra Hopper tenutasi all’interno del Museo Thyssen-Bornemisza, ha installato il dispositivo di Morning Sun (1952) facendo in modo che qualunque visitatore potesse interagirvi, apparendo all’interno della sua cornice”.
Per un’ora e mezza lo spettatore resta abbagliato dal cromatismo che insiste sulle tinte del verde erbaceo, che nelle tele di Hopper è spesso attribuito alle pareti, e qui si ripete negli abiti delle signore della upper class, nei divani e nelle luci dei bar; del rosso, il rosso delle labbra di Cathy (o anche di Carol), dei suoi abiti e il rosso delle foglie autunnali, e infine il giallo, soprattutto quello dei lampioni per strada, o della luce negli interni, che nei chiaroscuri della notte accende qualche speranza di salvezza. Haynes è capace in questo film, così come ha fatto anni dopo in Carol, di tratteggiare un affresco impietoso della comunità umana, proprio grazie allo stridio del suo ritratto figurativamente elegante. E non è di sicuro una coincidenza vedere Frank/Dennis Quaid seduto a bere in un bar molto simile a quello tristemente popolato dai Nottambuli (1942) di Hopper, o che il film si apra con una carrellata sulla casa dei protagonisti, che pare proprio quella di Second Story Sunlight (1960).
Tutta la pellicola si sviluppa tra spazi chiusi (la stazione di polizia, il salotto all’americana pieno di scale e scalinate, l’ufficio) che rimandano inequivocabilmente agli interni anonimi e soffocanti e alla luce fredda di Edward Hopper. E il disagio sottile e persistente che si prova nella visione forse è proprio l’indizio di un crescente ed inguaribile straniamento da una realtà che siamo incapaci di accettare come nostra e definitiva.
Proprio come Hopper nelle sue immagini si soffermava su un particolare apparentemente insignificante (una lampada accesa , una donna che cuce, una finestra socchiusa, una scalinata) per scovarne una poetica più profonda e sottile, qui Haynes è interessato a quello che non cambia. Sotto la coltre della perfezione ostentata, e di una bellezza acclamata egli indaga e smaschera l’orrore del sistema, riconfermando la poetica (e l’estetica) del suo cinema in un gesto: la mano sulla spalla. Quella che Cathy allunga sulla spalla di Raymond/ Dennis Haysbert, stabilendo il contatto con l’altro mondo “nero”, la stessa che Carol indugia su quella di Therese. Una autentica dichiarazione di amore e di accettazione in un mondo di inaudita finzione.
Francesca Divella