Nel libro di Joseph Ratzinger Musica (il cui sottotitolo è “Un’arte familiare al Logos”), si riprende ciò che il Concilio Vaticano II dispone in merito alla musica sacra: essa infatti “costituisce un tesoro di inestimabile valore che eccelle tra le altre espressioni d’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne”. Leggere la storia della musica occidentale alla luce dei testi che hanno sancito le regole e l’ideologia delle pratiche musicali, significa capire che la religione cristiana si affianca alla musica sin da subito, utilizzandola anzi come strumento privilegiato di evangelizzazione (pensiamo solo al canto gregoriano, omofono e monodico in favore dell’espressione della parola sacra).
Il film documentario They have to kill us first: malian music in exile (Schwartz, 2015), affronta il tema di un rapporto tra musica e religione dominato dalla visione teologica nell’epoca della globalizzazione postmoderna: nel 2012, infatti, quando in Mali la musica è stata proibita a causa dell’occupazione dei fondamentalisti islamici, gli interpreti estremisti della sharia chiudono la musica per radio, sottraggono gli strumenti ai musicisti e vietano ogni forma artistica di esibizione pubblica. Nel film, dal luogo di esilio, alcuni musicisti raccontano la loro storia di reazione ribelle: Fadimata, soprannominata Disco, che da ragazza amava ascoltare Holiday di Madonna; Kharia, che organizzerà un grande concerto a Timbuctu appena gli scontri con i jihadisti si saranno fermati; il gruppo dei Songhoy Blues che registra un disco in Inghilterra insieme a Brian Eno; Moussa Sidi che continua a scrivere musica nonostante sia stato allontanato dalla sua famiglia.
Come già nel film di animazione Persepolis (Satrapi, Paronnaud, 2007), in cui la protagonista araba Marjane ascolta gli Abba e i Sex Pistols, qui gli artisti esprimono la loro carica reazionaria e una visione della musica inglobata una dimensione sovranazionale, attraverso la dichiarata volontà di ritorno a casa (“devono ucciderci prima”, dice uno di loro). Tutti i racconti dei protagonisti svolgono un’operazione di denuncia rivolta prevalentemente – oltre alla violenza della guerra che il film documenta – all’estremismo religioso che condanna tutta quanta la musica, definita per questo “satanica”. Del resto, un altro musicista come Daniel Barenboim – fondatore di un’orchestra formata da arabi e palestinesi – nel libro La musica sveglia il tempo scriveva già nel 2007: “Il Vecchio Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano sono tutte fonti di saggezza infinita quando vengono letti da una prospettiva indipendente, antidogmatica […] Tuttavia, laddove vengano interpretati letteralmente o senza la partecipazione di tutti gli aspetti dell’intelligenza umana, tali testi non possono fornire l’unica e sola linea di condotta per l’esistenza umana”.
La musica non è un fiore del male.
Marianna Curia – Associazione Culturale Leitmovie