Nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura nel dicembre del 1982, Gabriel García Márquez trovò in una parola l’identità che un continente intero aveva cercato per circa 500 anni: solitudine. È stato García Márquez, il Cervantes dell’America Latina, colui che regalò a questa terra dimenticata, un posto reale nell’immaginario dove poter radicarsi, un intreccio di radici che si congiungono in una comune solitudine: Macondo. Sarà questo il paese condiviso da tutti i latinoamericani. Macondo, che riconosce il proprio volto sia nelle storie raccontate nei villaggi sformi dei vulcani guatemaltechi, sia nelle leggende fantastiche dei paesini nascosti nella giungla colombiana: è una terra tratta poco dall’immaginazione, una terra del ritorno al ghiaccio, una terra che rende credibile una vita difficile da spiegare perfino per chi, come García Márquez, ne condivide l’essenza. Dal nord del Messico al sud del Cile, il continente è stato spesso descritto sotto schemi che non appartengono all’America Latina: libri, ricerche, documentari, organizzazioni non-profit, progetti di sviluppo e un’infinita lista di lavori artistici e non, che hanno reso il continente “sempre più sconosciuto, sempre meno libero, sempre più solitario”. Sarà l’indiscusso capolavoro letterario del Gabo, quello che romperà questi schemi e che rimarrà per sempre la più irrequieta e magnifica testimonianza di un continente; rimarrà, in una non più utopica eternità, il modello per chi voglia, così come la regista Anabel Rodríguez Rios nel lago di Maracaibo, scrivere, filmare o colorare i racconti di solitudine del Nuovo Mondo.
Cent’anni di Solitudine, fra tante altre cose, è anche un appello di verità. Si è diffusa, nell’epoca dell’analfabetismo dell’immagine e della cronaca dell’io che idolatra se stesso, un’effimera immagine dell’America Latina che fa rabbrividire speriamo non pochi: scatti dalle nuove generazioni bene, che ostentano la fotografia di chi attraversa le frontiere dietro l’ambigua intenzione di chi aiuta senza capire, o percorrono i sali e scendi dell’affascinante Machu Picchu senza un via-à-vis con le popolazioni che lo circondano. Ed è quest’immagine falsa, sfocata e alienata, quella che rende sempre più necessario cercare una reale testimonianza, un vero approccio, un autorevole segno di solitudine e di verità.
È stata sotto la lente della realtà magica del Gabo e la solitudine che lui ha magistralmente descritto, che si pone il cortometraggio della Venezuelana Rodríguez The Barrel. Un lavoro meraviglioso che prende spunto dall’estrazione di petrolio nel Lago di Maracaibo e che, a differenza di tanti altri, non ci mostra la testimonianza vittimizzata di una disgrazia e l’inesistente e frequente ritratto di tristezza del terzo mondo. La regista latinoamericana ci mostra, invece: i bambini che saltano la scuola e costruiscono barche con barili; la così radicata umanità e senso di comunità nei villaggi; la così spesso dimenticata autenticità dell’allegria che si vive dentro le case di lamina.
Questo bellissimo cortometraggio sarà proiettato dopo l’introduzione di Paolo Lazzarini di Amnesty International e dopo Polinter di Dafne Capella, “un film che sembra una fiction kafkiana, ma è la tragica routine del sistema penitenziario di Rio di Janeiro”: entrambi nell’ambito di Human Rights Nights Festival, Venerdì 16 maggio alle 22:00. Accanto a questi due lavori cinematografici, tra i titoli sull’America Latina, vanno annoverati El Engaño (Florence Jaugey), presentato al Kinodromo Lunedì 12 Maggio, un mediometraggio sul traffico di donne destinate alla prostituzione in America Centrale; Fatal Assistance di Raoul Peck, Sabato 17 alle 20:30, un documentario che narra l’approccio fallimentare della comunità internazionale dopo il terremoto di Haiti del 2010 e Una Ciudad en una Ciudad (Cylixe), sull’occupazione di un grattacielo a Caracas (sempre Sabato 17) alle 22:30 al Cinema Lumière.
Azucena Moran