Non potevamo abbandonare Toni Erdmann al suo destino con una sola recensione. I cinefili ritrovati hanno avuto voglia di occuparsene di nuovo, questa volta ricordando un’esperienza prima molto evocata poi totalmente dimenticata, il Dogma. E se il film di Maren Ade fosse un nuovo film Dogma di cui non ci siamo accorti?
Guardando Vi presento Toni Erdmann, della regista tedesca Maren Ade, la prima sensazione che ci investe prepotentemente è quella di essere tornati all’epoca del Dogma 95 e del suo “voto di castità” firmato da Von Trier e Vinterberg. Per tanti versi infatti questo film sembra indossare l’uniforme, certamente rinnovata e meno rigida, meno cupa, del Dogma, con una inaspettata fedeltà ad alcuni dei suoi comandamenti: le riprese girate direttamente sulle location prescelte senza l’ausilio di grosse scenografie, l’uso del suono in presa (quasi) diretta, mai prodotto a prescindere dalle immagini e viceversa, la musica presente solo se diegetica (nella scena in discoteca e in quella del karaoke di Whitney “Snuck”); la macchina da presa rigorosamente a mano; i colori della pellicola; le luci quasi naturali (la penombra nella solitaria casa di Winfried, la luce sgargiante delle tende bianche nell’appartamento lussuoso della fredda Ines), pochi lavori ottici e filtri; assenza di azione superficiale (gran parte del film ci racconta l’attesa della figlia da parte del padre o ci mostra gli spazi vuoti dei silenzi tra le persone, o dei momenti in cui l’uno è andato via e l’altro lo guarda allontanarsi); la non alienazione temporale e geografica, il film sembra aver luogo qui ed ora.
Tutta la messa in scena del film, assieme all’impeccabile lavoro degli attori Sandra Hüller (la figlia Ines) e Peter Simonischek (il padre Winfried), ci trasmette per più di due ore questa pregnante sensazione di realtà, e davvero pare ricondurci ad una sorta di Festen dei giorni nostri, 19 anni dopo il Dogma 1, il manifesto cinematografico con cui Thomas Vinterberg aveva dato il suo personalissimo stop alle illusioni cinematografiche e all’inganno, per comunicare emozioni forti attraverso la pura verità delle immagini. E non è difficile emozionarsi quando il nucleo centrale del discorso è la famiglia, un rapporto padre e figlia segnato dalla ricerca spregiudicata e commovente di un dialogo, condotta con la carta vincente dello humor. Nonostante, come Winfried stesso ammette “It’s very complicated…It’s family”, questo sentimento di distanza, di espropriazione dei propri affetti da sè stesso, vale la pena di essere vissuto. Vale la pena di fermarsi anche solo un attimo a sorridere per accorgersi di quei momenti che sono unici nella nostra vita, e come tali vanno celebrati. La consunta retorica del carpe diem rinasce a nuova vita con questo film grazie alla delicatezza con cui la macchina da presa posa il suo obiettivo sui volti dei personaggi, sui capelli unti di Winfried, sulla disordinata parrucca della maschera Toni Erdmann o sulla sua ridicola dentiera.
Era forse dai tempi di 8 ½ che un oggetto di scena non diventava così fondante per l’intero senso di un film: lì erano gli occhiali scuri indossati da Guido per celare la sua crisi esistenziale, li indossava per nascondersi, li toglieva nei rari momenti di autenticità, qui, ribaltando quasi l’equazione, la dentiera di Toni è come una rivelazione del suo essere in quel momento maschera, del suo “joke”, della non autenticità del personaggio rappresentato, che però, in mezzo alle ipocrisie sociali e lavorative del mondo vissuto da Ines, risulta la cosa più autentica che si offre allo spettatore.
L’esercizio dello humor tanto caldeggiato da Toni/Winfried trova un correlativo oggettivo nel gesto ripetuto di indossare/togliere la dentiera. Essa assume un significato metaforico che entra di forza nella narrazione, la dentiera come metafora del non prendersi troppo sul serio, in una funzione strumentale, simbolica e narrativa. La dentiera diventa persino il mezzo per testare il prossimo, se la reazione è un sorriso allora apertura all’empatia, ma se è accolta da un senso di repulsione, beh ci sarà poco di cui fidarsi.
La dentiera è un dispositivo che innesca la risata. Usata dall’attore per definire il suo personaggio, il carattere, il ruolo sociale, la sua personalità (nel senso etimologico del termine dal latino persona = maschera dell’attore) funziona in tutto e per tutto come maschera, come i baffetti di Groucho Marx o la bombetta di Totò, un particolare per il tutto, in questa sineddoche della propria essenza. Toni è la sua dentiera.
E con questo ridicolo oggetto indosso va alla ricerca di una risposta alla più difficile domanda di sempre “Per cosa vale la pena vivere?” Ad ogni padre degno di questo nome piacerebbe poter donare ai propri figli una risposta concreta e inconfutabile a tal questione. Una risposta che li incoraggi a proseguire affrontando le difficoltà di una vita che ci mette spesso a dura prova. Eppure, la tenerezza di Toni Erdmann sta tutta qua, nella sua sincerità disarmante e paterna impotenza, è come se ci consolasse affettuosamente “non sono certo che ne valga la pena, ma quel che è certo è che fa bene riderci su”. Così, spingendo lo spettatore (specialmente quelli orfani di un padre con la P maiuscola) ad entrare in empatia con la figura di questo padre che non si arrende al vuoto di comunicazione, i momenti che più si lasciano amare nel film sono quelli in cui si stabilisce un contatto fisico o visivo tra i due protagonisti: l’abbraccio al parco tra la bionda Ines e il moro e peloso “kukeri bulgaro” finalmente chiamato papà, o la scena finale in cui Ines indossa la ridicola dentiera per strappare un sorriso al padre nel giorno dei funerali della nonna.
Per cosa vale la pena vivere? Siamo sempre impegnati a fare qualcosa…come diceva John Lennon la vita è quella cosa che ci accade mentre siamo occupati in altri progetti…ma come si possono fermare i momenti più memorabili? Basta il tempo di un sorriso, una foto, scatto e il momento è già andato via.
Francesca Divella