L’archivio, nell’immaginario, è solitamente un luogo polveroso e noioso. È il contrario della giovinezza, non veicola fermento né gioia, ma apatia e morte. L’archivio, tuttavia, ci lega al passato, diventando base per il futuro.

L’immaginario non sempre coincide con la realtà: l’archivio, nei fatti, è il luogo della scoperta e delle sorprese. Spesso anche un terreno problematico. L’Archivio Videoludico non fa eccezione. Nulla che impedisca di dormire la notte, sia chiaro, ma ci sono questioni che minano costantemente la tranquillità dell’orario d’ufficio. Partiamo da una premessa: l’Archivio Videoludico non è un archivio.

Le varie definizioni concordano nel definire l’archivio il complesso di documenti prodotti o acquisiti durante lo svolgimento della propria attività (vedi Paola Carucci), secondo uno spontaneo nesso originario di competenza e di contenuto, da un’amministrazione individuale o collettiva (vedi Plessi). L’Archivio Videoludico è più una collezione che un archivio, a voler essere fiscali. Eppure, vive in prima persona una delle più grandi problematiche che affliggono l’archivista tradizionale: la selezione. La questione è complessa e può contare su una considerevole trattazione teorica. Risponde infatti ad una domanda storica: “Cosa conviene conservare?” Secondo Jacques Ledoux, della Cinematheque Royale de Belgique, qualsiasi cosa, perché tutto può tornare utile. C’è chi, come Casanova e Lodolini, vede con diffidenza lo scarto, poiché si tratta di un’alterazione dell’unitarietà e dell’organicità dell’archivio. Certe operazioni di scarto sono però inevitabili. Qualcuno le definisce un elemento “qualificante”, dato che si scelgono documenti ritenuti essenziali e si eliminano carte ritenute inutili. Gli spazi non sono infiniti, ci piacerebbe immaginare una Biblioteca Renzo Renzi senza confini. Invece no, per cui a un certo punto il dilemma si presenta: FIFA 05 o Half-Life 2? Detto tra noi, non abbiamo alcun dubbio. Però ecco, entra in gioco l’umana (discutibile) sensibilità. Salva tutto in digitale e sei sistemato.

Appunto, veniamo al digitale, spesso considerato eterno. Magari. I supporti deperiscono, le piattaforme passano, l’obsolescenza tecnologica è dietro l’angolo. Come non bastasse, domani Steam chiude, Sony e il suo store digitale falliscono. Che fine fanno i giochi acquistati? Ci potremo accedere comunque? Di recente sia Forza Horizon che Castle of Illusion starring Mickey Mouse – il secondo per questioni di diritti, il primo non si sa – sono stati rimossi dagli store online. Di fatto nessuno, salvo chi li ha già acquistati, potrà più giocarci. Potremmo definirli morti perché non più accessibili? In un certo senso, sì. La conservazione è strettamente legata all’accessibilità di un’opera: se non posso accedervi quell’opera non esiste. Negli ultimi anni, per la cronaca, i giochi in digitale sono aumentati esponenzialmente in Archivio.

C’è l’emulazione, dice qualcuno. Vero, però si tratta non solo di una pratica ambigua e spesso illegale (vedi diritti d’autore) ma anche concettualmente controversa. L’oggetto emulato non restituisce appieno l’esperienza dell’originale (esperienza che passa anche dall’interfaccia, tanto per fare un esempio). L’emulazione è un buon compromesso, ma pur sempre un compromesso. Tempo fa, un utente misterioso portò in Archivio una vecchia scatola di scarpe piena di cassettine del Commodore 64. Quelle cassettine che venivano vendute in edicola, negli anni Ottanta, in barba a qualsiasi regolamentazione del diritto d’autore. Erano quelli che oggi chiameremmo giochi pirata, solo che venivano tranquillamente venduti in edicola o nei negozi di elettrodomestici, con titoli o colori modificati. Voi quella scatola di scarpe la cataloghereste accanto ai giochi “legali”? Si sconfina nel campo dell’obiezione di coscienza.

Insomma, l’archivista videoludico vive problemi quotidiani più o meno gravi. In ogni caso, sia Forza Horizon che Castle of Illusion sono sani e salvi in Archivio.

 

Andrea Dresseno