In occasione della rassegna dedicata al ’77 e al suo lascito cinematografico, audiovisivo, creativo e culturale, abbiamo potuto assistere ai lavori di montaggio ideati da Fulvio Baglivi, esperto indagatore degli archivi Rai, nonché tra i curatori di Fuori orario. Ecco che cosa ne pensiamo.

Buon’ultima, la televisione italiana avviò le trasmissioni a colori il primo febbraio del 1977. Nello stesso anno, Carosello, la storica rubrica pubblicitaria, chiuse i battenti. Nel frattempo, il Paese è attraversato da dirompenti fermenti sociali: le università, ormai di massa e non più appannaggio dei giovani borghesi, da Palermo a Torino passando per Roma e Bologna, sono occupate dagli studenti; gli scontri tra i ragazzi del cosiddetto Movimento e le forze dell’ordine lasciano vittime per le strade; il Parlamento vota e poi boccia la legge sull’aborto; lo scandalo Lockeed fa tremare i vertici dello Stato.

Fulvio Baglivi ha montato l’inedito blob Pochi effetti ma tanti speciali. La coerenza tra media e fini. Il ‘77 in TV partendo anzitutto dalle due novità televisive che sancirono la fine di un ciclo. Mentre i nuovi spot cercano di uscire dalla logica dei vecchi sketch pur restandovi ancorati (come Carlo Dapporto, testimonial di un noto dentifricio), il varietà si permette di sperimentare le possibilità ottiche e cromatiche della nuova tecnologia servendosi del corpo danzante e della vocalità di Raffaella Carrà. Mediante questa vestale della leggerezza che officia in un momento di enorme tensione, Baglivi sembra dialogare con il Bellocchio di Buongiorno, notte, dove i sequestratori, nel tinello, fruiscono del varietà più disimpegnato e intanto, nello stanzino accanto, processano lo Stato nella persona di Aldo Moro. Di fatto, un’anticipazione del riflusso (ma questa è un’altra storia).

Nell’orgia rievocativa imposta dall’importante anniversario, il lavoro di Baglivi, che procede per giustapposizioni dettate da umori e intuizioni, non include soltanto la visione del ‘77 da parte del maggior mass media dell’epoca. In questa libera composizione fatta di materiali riemersi dall’archivio Rai, la tv del ‘77 pare riflettere l’attesa della schizofrenia enunciata da Bellocchio, incamerando le tensioni di un anno vissuto pericolosamente che, nel momento del passaggio al colore, mantengono il bianco e nero. E se la causa è sicuramente ascrivibile ad un lento aggiornamento, a distanza di quarant’anni le interviste in b/n ai leader romani del Movimento o le cronache degli scontri bolognesi assumono i connotati di una cronaca già storicizzata nell’atto stesso della sua riproduzione in diretta.

Al contrario, i titolari delle comunicazioni istituzionali, siano essi giornalisti o politici, non possono rinunciare al grigio, il colore della prima repubblica. Ma più di Emilio Fede che lancia il servizio di Piero Badaloni, a colpire sono le immagini più (involontariamente?) debitrici ad un immaginario cinematografico. La cattura di Renato Vallanzasca, per esempio, è un piccolo saggio per la capacità divistica del bandito di presentarsi di fronte alle telecamere con la nonchalance di chi conosce le potenzialità del quinto potere: il dettaglio della mano sulla stampella lo rende un antieroe ferito ma comunque fiero, benché la sua parabola criminale sia già in qualche modo anacronistica rispetto alla polveriera politica di quei mesi.

Pertanto il siparietto in cui Cossiga, allora ministro dell’Interno in piena fase kossighiana, finge di rispondere alle forze dell’ordine non solo individua plasticamente l’antagonista del Movimento, creando una dialettica con gli altri protagonisti, ma sembra arrivare da un film di Risi o Petri. Quello di Cossiga è anche il volto di un potere distaccato ed invulnerabile che, appena l’anno dopo, a causa dello stress derivato dal caso Moro, si sarebbe ritrovato i capelli bianchi e le macchie sulla pelle. Allora questo ‘77 diventa davvero il momento in cui la televisione coglie, forse accidentalmente, le immagini di un crepuscolo politico e culturale, accentuato da un bianco e nero spiritato in opposizione all’incipiente colore.

Che a sua volta appartiene a realtà “altre”: i reportage stranieri sulla violenza a New York, i concerti punk e la “musica paranoica e sgradevole” degli inglesi Ultravox (così parlò la tv generalista), le inchieste sul mondo della scuola o sulla suburbana comunità di Carloforte. Tutto ciò che non è istituzionale beneficia della novità cromatica, si rigenera nella scoperta del giallo pallido e del rosso mattone e, nonostante lo sguardo sia spesso paternalista o scettico, si lega a quel che accade nelle strade e nelle piazze, cercando, nei limiti del possibile, di scandagliare le ragioni di una contestazione. Il cortocircuito esplode quando un giornalista interroga l’allora segretario dei giovani comunisti sull’attrazione dei giovani verso la musica come valvola di sfogo (sì, capitavano cose così): ma la supercazzola pseudointellettuale di Massimo D’Alema manifesta lo stesso algido distacco dei politici che egli stesso contestava. È proprio l’immagine del giovane leader d’apparato, un grigiore a colori, a dimostrare il senso di un’incomprensione, metaforizzata dall’incapacità di capire la disubbidienza, anche artistica, del periodo.

Il ‘77 è una storia di immagini e quello del ‘77 è il primo movimento che riesce a raccontarsi: con le foto, soprattutto dell’insider Enrico Scuro e di Tano D’Amico, e con i super8. È fondamentale l’attività di videoguerrilla dei Dodo Brothers perché la loro narrazione non si limita a raccontare il contenuto del momento ma influenza la forma dei videomaker successivi. Ad Andrea Ruggeri, uno dei membri del collettivo, si deve la persistenza nel ricordare il fugace splendore di questa esperienza e l’omaggio Vita breve di rivoltosi ne trasmette tutta la vitalità.

Eppure il ‘77 è anche una storia di suoni, diversi e nuovi, in armonia col dissenso della contestazione, e Baglivi sceglie sì di accogliere la musica più emblematica (il punk, gli Skiantos e i concerti dadaisti) ma di concludere con Lucio Dalla, non proprio uno del Movimento, uno che in quell’anno riempiva gli stadi con Francesco De Gregori. Tuttavia, Com’è profondo il mare è davvero il racconto di quell’anno, con il dolore, la violenza, la fantasia, la morte, l’illusione, la rivelazione, il disincanto.

Lorenzo Ciofani