Tra i molti film usciti nel 1977 di cui – per festeggiare i quarant’anni – ci stiamo occupando in queste settimane, oggi tocca a Un borghese piccolo piccolo, con Alberto Sordi, di Mario Monicelli.

In Essere Nanni Moretti (Mondadori, 2017), Giuseppe Culicchia rileva che l’autore forse più influente per il cinema italiano degli ultimi quarant’anni ha altresì figliato almeno due generazioni ciecamente votate al suo repertorio di frasi, fisime, cliché. Allora non è scorretto pensare che l’invettiva di Michele Apicella contro Alberto Sordi in Ecce bombo (“Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Sì, bravo, bravo… Te lo meriti Alberto Sordi!”) abbia condizionato l’opinione di quel pubblico sul monumentale attore. Probabilmente, agli occhi di alcuni miopi, sconta l’atteggiamento compiaciuto col quale ha rappresentato l’evoluzione dell’italiano medio, finendo per ammiccare ai caratteri dell’italiano peggiore. Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore di fiducia, nel remix di Tatti Sanguineti Il cervello di Alberto Sordi (Adelphi, 2015), depreca questa tendenza (auto)celebrativa dell’ultimo Sordi, suggellata dallo smisurato ciclo Storia di un italiano (Raidue, 1979-’86).

Invecchiando, Sordi non sapeva più connettersi col Paese del quale s’era fatto maschera, prestando il volto al racconto della “zona grigia”, la maggioranza silenziosa, una Roma sorniona, servile, cinica, indolente. Eppure c’è in lui qualcosa di irrimediabilmente tragico, una frattura insanabile tra desiderio e coercizione, come si può arguire, ad esempio, dallo sconsolato finale di Riusciranno i nostri eroi….

Qui ci interessa il Sordi del 1977, quello che, autoproclamatosi auteur, aveva già deciso di dirigersi da solo (e male), moraleggiante, paternalista prigioniero dell’attualità (il mercato delle armi, il senso del pudore, il femminismo, l’esterofilia…), ormai sprovvisto della spietata capacità corrosiva. Ma pur sempre il più grande attore italiano, come dimostra nei suoi due film nel ’77, capaci di raccontare con sagacia e crudeltà una certa Italia – o una certa Roma – in quell’anno così incandescente.

I nuovi mostri, strenna natalizia dell’annata, vede Sordi impegnato in tre episodi e incarna altrettanti mondi, fasce sociali, umori, fallimenti: un logorroico e patetico cocainomane dell’aristocrazia nera, un cinico ed ingrato arricchito che sbologna la madre in una casa di riposo, un guitto decaduto finalmente protagonista al funerale del capocomico. Il trittico sordiano, più degli altri episodi, è una delle pietre tombali alla commedia all’italiana, da mettere accanto ad Amici miei e La terrazza, e vale soprattutto perché a piantare la lapide è l’attore più rappresentativo del genere, con la ferocia di chi prende coscienza di non sapere più comunicare col mondo. Essenziale nel giovane Sordi, la paura del fallimento personale diventa, nella maturità, la consapevolezza del fallimento del suo mondo di riferimento.

Tuttavia, qualche mese prima de I nuovi mostri, Un borghese piccolo piccolo già postulava, con cupo e sporco pessimismo, questo disastro etico. Ma alla fine di quell’anno, Mario Monicelli, il sessantaduenne regista del film, si scontra in tv proprio con lo scalpitante neofita Moretti in una memorabile puntata di Match arbitrata da Alberto Arbasino. La diatriba tocca la trasposizione del romanzo di Vincenzo Cerami, disprezzato da Moretti in quanto “film cattivo, molto ambiguo, secondo molti reazionario, anche secondo me… Il giustiziere della notte, Sordi che tortura uno, tutto il sangue…”. È chiaro, Sordi e Moretti riflettono i rispettivi pubblici: un ceto medio impiegatizio, democristiano, magari postfascista come potevano esserlo quelli cresciuti balilla e in fondo nostalgici di quell’ordine marziale; e il cosiddetto ceto medio riflessivo, la (piccola) borghesia sempre legata all’impiego pubblico ma con una maggiore consapevolezza intellettuale, culturalmente matura per affrontare una discussione in salotto, elettori del Pci senza l’illusione del sol dell’avvenir.

Due facce della stessa piccola borghesia o semplicemente la stesso pubblico che fa finta di non riconoscersi e quindi ride l’uno dell’altro. Purtroppo l’autore di Io sono autarchico (stimato da Monicelli con elegantissima perfidia: “si è creata questa cosa per cui tu adesso sei l’esponente della nuova regia italiana, della nuova nouvelle vague italiana: no, non è vero. Sei un buon regista. […] Sei stato il press agent più straordinario che ci sia nella gioventù italiana dai quarant’anni in giù, credimi. Che il film poi sia grazioso, siamo d’accordo: ma ti assicuro che è molto meno di quello che tu credi”) dimostra qualche limite nella comprensione del Borghese. E, di riflesso, nella prospettiva del personaggio (di) Sordi.

Giovanni Vivaldi, l’impiegato ministeriale entrato nella massoneria pur di assicurarsi l’assunzione del figlio che poi gli muore accanto, accidentalmente crivellato dai colpi di un bandito, è lo zenit drammatico di un tipico personaggio sordiano, uno alla ricerca di qualcosa che non trova, un ingranaggio incapace di cambiare il sistema. Vivaldi cerca giustizia, trova vendetta, si nega per sempre la pace. Il problema di Moretti sta qui, nel sottovalutare che Monicelli vuole mettere in scena la non rappresentabilità degli italiani, i quali perdono le virtù civili e scelgono la violenza come unica soluzione. Sordi non sarebbe nemmeno nuovo al corteggiamento della morte per garantirsi la stabilità (le vecchiette in Piccola posta, la ricca moglie ne Il vedovo, il medico moribondo da cui ereditare i mutuati ne Il medico della mutua), eppure qui intercetta il malcontento di un ceto sulla soglia di un’immoralità non più umoristica.

È lo stesso Sordi ad ammetterlo: Vivaldi è un mostro perché è dentro fino al collo in “una violenza che annulla gli altri e lui stesso quando il sipario della sua mediocre rappresentazione (l’unica che sappia fare) è strappato dal colpo di pistola”. Mica poco da uno accusato di qualunquismo, il maschilista capofamiglia fedele solo alla religione del posto fisso, l’andreottiano refrattario alle convergenze parallele tra perdono e dolore per lasciarsi infine contagiare dalla rabbia, la violenza, la morte.

Si potrebbe anche accostare la prova di Sordi a quelle coeve di altri moschettieri della commedia all’italiana, curiosamente impegnati in ruoli drammatici: Nino Manfredi, monsignore cosciente del declino del potere papalino in In nome del papa re, si ritrova un figlio tra le file dei rivoluzionari; Ugo Tognazzi è un perverso omuncolo ridicolo nel lacustre e decadente La stanza del vescovo; Vittorio Gassman è la doppia Anima nera di una lugubre Venezia, svelando la schizofrenia di un istrione che per vent’anni ha espresso il tragico nella cialtroneria di mille Bruno Cortona. In tutti questi film c’è il conflitto tra due generazioni che non si sanno ascoltare né comprendere. Se la spuntano i più giovani è solo per l’inadeguatezza morale degli adulti (e la tendenza si sarebbe accentuata in Primo amore, Caro papà, La terrazza…). Ma il Vivaldi di Sordi è un grumo di tristezza irrimediabile, il ’77 di chi non scende in piazza ma resta in casa a guardare la televisione, odiando la gioventù fuori dall’ordine costituito fino a volerla ammazzare, per continuare a credere in un piccolo mondo fatto di piccole cose, (non) vissuto da piccoli uomini.

Lorenzo Ciofani