Ovvero, come uscire dal letargo dei sensi grazie alla realtà virtuale. Oppure, come la realtà virtuale può offrire nuovi orizzonti al cinema. O ancora, come la VR può riuscire là dove il 3D ha fallito. La cosa più buffa, col senno di poi, è che potrebbe essere tutto merito dei videogiochi.

La storia ha inizio negli anni Novanta, quando il concetto di realtà virtuale prende piede e diventa di moda. Il primo film a essere puntualmente citato è Il tagliaerbe. Siamo nel 1992. Per i videogiocatori, in particolare, il virtuale sembra pura fantascienza, un miraggio lontano, un sogno. I giocatori, per definizione, amano abitare mondi altri. Lo fanno di continuo: vestono panni differenti, si muovono in contesti digitali, li esplorano e osservano dal di dentro. Il monitor, tuttavia, continua a essere una soglia, uno spartiacque concreto tra reale e finzionale. Da giovane immaginavo di percorrere quei mondi fantastici in prima persona, senza mediazione alcuna. Anche all’immaginazione tocca fare i conti con la realtà: nemmeno il virtuale di oggi è del tutto invisibile. Si avverte la presenza del visore, talvolta sbuca dal basso uno spiraglio che lascia intravedere il mondo esterno, bisogna fare i conti con il cavo di collegamento. Di certo, però, si sono fatti passi da gigante rispetto agli anni Ottanta e Novanta. Qualche visore già esisteva, ma i costi erano proibitivi, la diffusione assai limitata, la tecnologia meno raffinata e il supporto quasi inesistente. Non ci riferiamo al Virtual Boy di Nintendo, che di virtuale aveva solo il nome, ma a quei prototipi che spuntavano qua e là alle fiere dell’elettronica.

Sony si è lanciata nel mercato il mese scorso con PS VR, visore che può essere collegato a PlayStation 4 per sperimentare la realtà virtuale nel proprio salotto. Il 2016 è l’anno della VR, si legge nei giornali; la VR è la prossima frontiera del videogioco. Non vi nascondo che il primo impatto con la realtà virtuale è sorprendente, con tutti i pro – l’incredibile effetto di presenza – e i contro – un saltuario motion sickness – del caso. Potremmo davvero trovarci di fronte a un nuovo filone dell’intrattenimento digitale, a patto che gli sviluppatori sappiano ripensare il linguaggio videoludico adattandolo al virtuale. Non solo gioco, ma anche applicazioni culturali, turistiche, di approfondimento: tutte esperienze mirate a calare l’utente in un altrove credibile, che permetta di ammirare il mondo a 360 gradi. Eppure, quando racconto la mia esperienza con la VR, finisco sempre a parlare di cinema. Ho visto Allumette, un delizioso film in stop motion della durata di venti minuti. Ho visto il cinema 2.0.

Ne ho parlato altrove; ne approfitto per citare alcuni passaggi. Allumette mette in discussione il confine tra spettatore e giocatore. Indossato il visore, lo spettatore si trasforma in una sorta di divinità che ha libertà di osservare il mondo come meglio crede. La narrazione scorre davanti ai suoi occhi, ma egli può avvicinarsi ai personaggi, osservarne i dettagli; muoversi un po’ a destra per scoprire cosa sta accadendo dietro l’angolo, mentre il focus della narrazione prosegue altrove. Guardare in alto, in basso, voltarsi a destra e sinistra in un mondo sospeso tra le nuvole. L’opera di Penrose Studios si spinge oltre, assecondando la tensione voyeuristica dello spettatore. A un certo punto (no spoiler) si sente un rumore provenire da un luogo. Lo spettatore si avvicina alla parete e la “rompe”, osservando l’interno di quel luogo e scoprendo quel che sta accadendo prima ancora che l’abbiano fatto i personaggi.

Allumette suggerisce una nuova direzione per il cinema, un cinema che diventa interattivo pur senza joypad. Immaginiamo nuove opere in cui il giocatore possa interagire concretamente: alla piccola bambina sta per cadere un fiammifero nel vuoto e tu, divinità che osserva, vorresti aiutarla ad afferrarlo. Senza però rinunciare allo sviluppo predefinito della narrazione filmica. Allumette introduce un concetto interessante legato all’esplorazione dello spazio: mettendo lo spettatore in posizione attiva, l’opera filmica diventa un oggetto mutevole e sfaccettato, ogni volta differente. Quando un film diventa infine rigiocabile, qualcosa è cambiato. Allumette ha finalmente risvegliato il cinefilo che è in me.

Andrea Dresseno