Ancora ignari della dura legge della realtà del Vietnam e animati da un forte desiderio di redenzione ed evasione rispetto ad un microcosmo sociale tanto accogliente quanto angusto e opprimente, Michael, Nicolas e Steven godono del piacere di un attesa che vorrebbero fosse infinita. In un sabato del villaggio qualunque, la cittadina di Clairton, Pennsylvania, è colta in quei piccoli affreschi di vita quotidiana che preannunciano il matrimonio di Angela e Steven, prossimo al servizio della patria; tuttavia, già in questa calma quiete, si avvertono i prodromi della tempesta.
Il paesaggio di Clairton è, non a caso, avvolto dal grigiore di un cielo che trasmette un senso di inquieta trepidazione e il seme di quel dolore infernale in cui Cimino calerà repentinamente lo spettatore è già contenuto nella distesa atmosfera dell’attesa. Quella di Cimino è, in tal senso, un’estetica volta a creare un indissolubile legame tra i personaggi e il paesaggio, i cui colori, grazie al lavoro sulla luce di Vilmos Zsigmond, descrivono l’opacità di un contesto naturale e cittadino spoglio e cinereo. Il suo essere così scarnificato e ridotto ad una fioca essenzialità è un riflesso degli animi che lo pullulano.
Si potrebbe dire che tre momenti, durante questo primo atto, preannunciano l’impetuoso futuro: l’improvvisa apparizione, al matrimonio, di un soldato americano sul cui volto erano già manifesti i segni della miseria, le impercettibili gocce di vino cadute dal bicchiere di Angela, chiara e finissima allusione al sangue che si sarebbe versato e, infine, il cervo colpito da Michael con un colpo solo. Ed è nell’essenza di questo unico colpo che è racchiuso il senso della mutevolezza del destino dell’uomo e, in tal caso, della sorte dei tre protagonisti destinati a confrontarsi con i suoi duri e implacabili colpi nella scena della roulette russa, dopo essere stati catturati da alcuni Vietcong.
La catabasi è fulminea, e il regista l’annuncia, in maniera molto fredda ma efficacemente pervasiva, con il disturbante rumore dell’elicottero pochi attimi dopo la fine del Notturno suonato da uno dei compagni della comitiva di Michael: una suonata straziata e straziante, il cui esito è reso ancora più intenso dal lento piano sequenza in cui vengono inquadrati i volti di Michael, Steven e Nicolas, ormai consci dell’inizio di un percorso di non ritorno. Un’irreversibilità fisica e, soprattutto, psicologica contraddistingue il loro essersi prodigati per una patria declamata silenziosamente e con un canto debole nella sequenza finale, destinata a rimanere nell’immaginario collettivo per l’intensità del pianto di Robert De Niro (Michael), pianto che non poteva più essere soffocato e che è lo stesso di Nicolas (Christopher Walken) alla vista di un compagno mutilato.
Se, tuttavia, per Michael la vista dell’orrore si traduce in un’inflessibile volontà di recuperare i frammenti di un passato sempre più lontano, per Nicolas si verifica l’esatto contrario: la sua involuzione è il riflesso di una disfatta interiore per cui ciò che, unicamente e paradossalmente, ha senso è la fatalità del colpo solo.
Elvira Del Guercio