Più di altri generi musicali, il jazz costituisce una forma di espressione collettiva basata su una melodia comune sulla quale i musicisti intervengono con assoli, momenti d’espressione individuale in un più ampio contesto orchestrale. Chi, meglio di Duke Ellington, ha incarnato quest’idea di ensemble jazzistica? Musicista e arrangiatore, direttore di una delle più importanti e longeve big band della storia, il “Duca” è la quintessenza della scrittura in note, espressione perfetta di una composizione al pari di quella sinfonica. Si pensi in questo senso alla complessità creativa delle sue numerose Jazz symphony o a più immediati e orecchiabili motivi come Take The “A” Train o It Don’t Mean a Thing (If It Ain’t Got That Swing).

Testimonianza visiva di questo talento sono I Got It Bad and that Ain’t Good di Josef Berne (1942) e Black and Tan Fantasy di Dudley Murphy (1929). Il primo è un soundies, mirante a promuovere il pezzo oltre il mezzo radiofonico, attraverso la forma innovativa dell’esecuzione filmata. Il lavoro di Murphy è invece da ascrivere tra quei cortometraggi dei primi anni del cinema sonoro, che vedevano noti musicisti afroamericani protagonisti di semplici quanto labili vicende-pretesto per eseguire il brano che dava il titolo alla pellicola. Legati a una concezione stereotipata e razzista del nero, spesso associata a un’idea di cialtroneria e perdizione, questi film valgono più per le esibizioni musicali che per l’aspetto narrativo. In Black and Tan, il brano che Ellington sta scrivendo in apertura è eseguito nel finale in cui, al capezzale dell’amata ormai in fin di vita a causa di un problema cardiaco, il musicista suona in noto attacco di pianoforte a cui si aggiungono in successione tromba, trombone e clarinetto in un crescendo di indubbia suggestione, arricchito da una coreografia di ombre proiettate sul muro quasi fosse un coro greco.

Altrettanto efficace risulta Jammin’ the Blues (1944) di Gjon Mili. Vero e proprio tentativo di estetizzazione musicale, il corto si compone di tre esecuzioni per opera di una jam session d’eccezione tra cui spiccano Lester Young, Jo Jones e Illinois Jacquet. Attraverso un raffinato gioco di luci e ombre, insolite angolazioni di ripresa, profondità di campo e altri accorgimenti visivi, è offerta una barocca rappresentazione dell’iconografia jazz, arricchita da quel senso di collettività alla base di questa musica e più in generale della cultura afroamericana. Difficile non pensare a Mo’ Better Blues che deve chiaramente molto al lavoro di Mili e di cui può essere considerato una sorta di proseguo, dato che Spike Lee ne riprende e attualizza il concetto chiave. Non a caso il protagonista Bleek Gilliam, chiudendosi in una ricerca quasi ossessiva di perfezionismo e solipsismo, finirà escluso, espulso dal suo gruppo e metaforicamente dalla sua comunità. Una sorte che funge da monito, memore di un passato fattosi storia e coscienza di un popolo.

Lapo Gresleri – Associazione culturale Leitmovie