“Tutto ciò che è terribile ha bisogno del nostro amore”. Con questa iniziale epigrafe di Maria Rilke e con le riprese dall’alto di una ragazzina che pedala veloce verso una città deserta, planiamo dentro White God. Sinfonia per Hagen, ultimo film del regista ungherese Kornél Mundruczó, in programma al cinema Lumière. Insieme alla ragazza attraversiamo un ponte su cui è stata frettolosamente abbandonata una macchina a porte aperte ed entriamo nel cuore di una Budapest silenziosa e senza vita. Fino a quando l’unico suono, il respiro affannato di una corsa in bicicletta, viene coperto dall’abbaiare di un branco di cani che sbuca improvvisamente di corsa da una via. La scena si interrompe lasciandoci nel dubbio: i cani inseguono la ragazza o la seguono?
Dopo questo flashforward, che ha catturato la nostra attenzione e la nostra emozione, il regista ci riporta all’inizio della storia: Lili (una giovane e intensa Zsófia Psotta dagli occhi chiari, dolci e duri al tempo stesso) ha tredici anni, un cane bastardo di nome Hagen come migliore amico e una madre con cui vive e che la consegna al padre per partire con il suo nuovo compagno. La convivenza tra Lili e il padre Daniel (un Sandor Zsoter malinconicamente misantropo, disarmato e disarmante) è da subito difficile e a complicare le cose si aggiunge una legge che impone una tassa ai proprietari di cani bastardi. Daniel ha pochi soldi, molto rancore e poca dimestichezza con cani e adolescenti: inevitabilmente commetterà un errore che costerà caro a parecchie persone.
Accanto alla trama intessuta dalle vicende umane si sviluppa e si intreccia quella che ha per protagonisti gli animali, i cani, e in particolare il biondo Hagen, incrocio tra un Labrador e uno Shar Pei (interpretato da ben due cani attori: Luke e Body). Uno straordinario lavoro di addestramento al servizio della ripresa cinematografica che arricchisce il film senza farlo cadere nella trappola buonista del filone canino hollywoodiano.
Mundruczó rinuncia a scegliere un genere preciso, mescola le carte e costruisce un film molto originale che sovrappone vari registri: quello fiabesco, quello d’avventura, quello adolescenziale fino ad arrivare alla fuga, all’inseguimento e all’horror che lambisce lo splatter. E anche se l’idea di un frullato in cui vorticano frammenti di Lilli e il vagabondo, Lassie, E.T. , Cujo e Uccelli può far temere il peggio, alla fine il regista riesce a dosare bene gli ingredienti, regalandoci un film di forte presa, visiva ed emotiva. Un film potente e delicato al tempo stesso, fortemente sostenuto dall’intento allegorico di parlare di temi ancestrali, di paura, di solitudine, di disagio, di odio, di amore e anche di temi particolarmente attuali come il razzismo, senza però indulgere a facili moralismi.
Il titolo White God allude esplicitamente al pensiero dei bianchi che immaginano un Dio bianco ma richiama anche, con un gioco di parziale anagramma, White Dog di Samuel Fuller del 1982 dalla trama molto simile, che fu giudicato così politicamente scorretto dalla Paramount Pictures da bloccarne la distribuzione negli Stati Uniti. E in effetti anche il cuore del film di Mundruczó è terribile, sanguina – come il cuore del bue sezionato all’inizio del film – e ci disturba perché ci riguarda, ma cattura il nostro sguardo. E magari, come suggerisce Rilke, anche un po’ del nostro amore.
Lorenza Govoni