Chi si è lasciato sfuggire l’opinione secondo cui Little Sister è il film che Ozu girerebbe oggi, rischia forse l’accusa di retorica ma non ha sicuramente esagerato. Il capolavoro di Hirokazu Kore-eda narra la vicenda delle tre sorelle che “adottano” una quarta più giovane, figlia di secondo letto del papà, e lo fa con una limpidezza e candore straordinari. Effetto tanto più difficile da ottenere quanto più semplice e sereno all’impressione. Piccoli moti dell’animo e infinitesimali passaggi famigliari ed emotivi sono l’unico ingrediente del film, unito ovviamente a una assoluta maestria di messa in scena, fatta di pochi e necessari movimenti di macchina e di un lavoro formidabile sulle bravissime attrici. A seguire una breve antologia critica che ci rafforza nella convinzione di aver incontrato un piccolo grande film.

“Tutta una vita. Come un Lelouch al limite dell’astrattezza, dove la vicenda delle quattro protagoniste si sposta anche verso delle derive da melodramma anni Trenta (tra Quattro figlie di Curtiz a Donne di Cukor) sottolineata anche dalla colonna sonora. Ma Kore-eda mette in gioco meccanismi familiari per farli galleggiare nel flusso della vita, tra lutti e rinascite (una delle protagoniste, che lavora in ospedale, è quotidianamente a contatto tra la vita e la morte), dove ogni momento diventa intimamente commemorativo. Un cinema che ondeggia, segnato dalle tracce blu della fotografia di Mikiya Takimoto (con cui il regista aveva collaborato nel precedente Father and Son) che crea l’illusione di vedere e vivere un cinema in stadi di successive e momentanee ipnosi” (Simone Emiliani, Sentieri Selvaggi)

“Quasi niente succede, in Our Little Sister, nessuno esplode, nessuno rivendica, al massimo urla al vento il suo piccolo risentimento. Come in Mia madre di Moretti, la sola cosa che conti ancora, dopo una vita passata a sopportare e soffocare, oppure a sbagliare o girare a vuoto, è ciò che i morti si lasciano alle spalle e ciò che i vivi sanno raccogliere per proseguire in un modo o nell’altro la loro placida deriva: un vecchio sistema mai dimenticato di mettere le prugne sotto spirito o di cucinare il pesce al curry; la maniera corretta di muovere il braccio quando si va a pesca di carpe o un vestito appartenuto alla nonna. Contano gli oggetti, contano i frammenti da cogliere in un quadro senza più cornice, ripreso in costante e lievemente fastidioso movimento,  ben lontano dalla fermezza dello sguardo a livello tatami; contano i racconti dei vivi sui morti, o al contrario conta la bontà dei vivi contro la rapacità dei vivi, dentro una realtà ostinatamente consolata e consolatoria, che in fondo, però, è la sola che ci possiamo permettere, come se nulla fosse vero al di là dell’eterno presente, e la morte, come tutto il resto, fosse un passaggio inutile” (Roberto Manassero, Cineforum)

“Kore-eda, fidèle à sa narration flâneuse, arpente les vies de ses héroïnes en dérivant par parenthèses, sans laisser trop apparaître les coutures de l’ouvrage qui se dessine sur la longueur du film (soit bien sûr les conditions d’une renaissance, la conjuration des vieux spectres du passé familial). Il apparaît surtout que sur cette musique-là, Notre petite sœur pourrait durer éternellement : sa légèreté, sa justesse de ton, la sensation d’élégance féminine qui émane de chacune de ses scènes en font un objet toujours susceptible de fleurir et raconter d’autres histoires qui nous conquerraient certainement tout autant, tant qu’elles parviennent à nouer aussi naturellement le léger et le grave, le naïf et le tragique, la maison de poupées et les ébranlements familiaux” (Théo Ribeton, Les Inrockuptibles)

“Self-effacingly and unobtrusively, the director gives an easy swing to this quartet’s life, moving calmly from the home to the school, from the private sphere to the fraught public world of the workplace, the funeral and the wider family gathering — which is to become more fraught still with a certain reappearance. (…) Yet there is such compositional flair here. Nothing is emphasised too much, voices are not raised very greatly, even in moments of great stress; nothing in the drama or the direction is very strenuous, and yet it accumulates in power, like a crescendo in chamber music. There are some swooningly lovely touches: such as Suzu’s ecstatic ride on the back of a bicycle, turning her face to the sunlight: Kore-eda boldly keeps the shot on her until we too have felt the warmth (Peter Bradshaw, The Guardian)