Presentato in questi giorni in numerose città italiane, Il cinema russo attraverso i film (curato da Alessia Cervini e Alessio Scarlato, edito da Carocci) è in libreria da alcuni mesi . Il volume fa parte di una collana diretta da Giacomo Manzoli e Francesco Pitassio, che conta già alcuni titoli dedicati al cinema americano, francese, e (a breve) spagnolo e tedesco. Il libro sul cinema russo, ora anche consultabile presso la Biblioteca Renzo Renzi della Cineteca di Bologna, esattamente come gli altri non va considerato alla stregua di una storia del cinema russo o sovietico, né un’opera collettiva con “il meglio di…”, bensì come uno studio dell’identità poetica e culturale di una nazione attraverso alcuni film chiave.
Le parole dei curatori in quarta di copertina sono molto chiare: “Il cinema russo e sovietico è stato, in forme di volta in volta differenti, una grande elaborazione per immagini del tema del potere: di quello politico innanzitutto. I dodici film analizzati nel volume esprimono modi diversi, in qualche caso anche diametralmente opposti, di confrontarsi con la storia di un Paese che ha cercato la propria identità in un avvenimento traumatico come quello della Rivoluzione bolscevica. Tale esplorazione ha conosciuto le forme sperimentali dell’avanguardia, le strutture soltanto apparentemente canoniche dei generi, le ricerche poetiche e personali di grandi autori. I dodici film presi in esame rappresentano uno spaccato della storia del cinema, e al contempo uno sguardo d’orizzonte sulla cultura russa del secolo appena passato”.
E in effetti, ogni pellicola sembra portare con sé un segmento dei problemi critici ed estetici con cui affrontiamo di solito il cinema russo, a cominciare dal fatto che la filmografia della cosiddetta avanguardia degli anni Venti si proponeva la distruzione del sistema artistico e oggi viene recepita e amata quasi solamente in virtù della sua maestria artistica, quindi decontestualizzandone totalmente la carica eversiva (la nota sequenze di Fantozzi e del Potemkin docet).
Nella loro ricca e densa introduzione, Cervini e Scarlato guardano al tema “rivoluzionario” come a quello maggiormente in grado di dare conto della complessità di una produzione che rischia di essere conosciuta all’occidente solo attraverso pochi film e spesso equivocando sul contesto di partenza. Pur rinunciando al cinema pre-rivoluzionario e a quello dell’era Putin (due estremi che potrebbero trovar posto in una eventuale seconda edizione), il volume va da Cineocchio del 1924 fino ad Arca russa (2002), coprendo circa 80 anni di cinema. In mezzo, cinema staliniano, cinema del disgelo, cinema della modernità, cinema della stagnazione, e cinema post-sovietico – ognuno con le sue contraddizioni e ognuno attraversato da forze poetiche straordinarie.
Tra le analisi, oltre a quelle dei due titoli citati, spiccano le letture ad alta precisione di Volga Volga (G. Aleksandrov, 1938), Quando volano le cicogne (Kalatozov, 1957), Lunghi addii (K. Muratova, 1971), senza dimenticare i “recuperi” di Boris Barnet e la scelta – inattesa ma giustificata – di accogliere Ejzenstejn con Ivan il terribile (1944-46), invece che con i capisaldi degli anni Venti. Il gruppo di saggisti (Mackkay, Venzi, Miller, De Gaetano, Somaini, Bulgakova, Piretto, Jampol’skij, Dogo, Dottorini, più i due curatori a loro volta analisti) appare solido e storicamente informato.
Alla fine della lettura, il cinema russo ci sembra più leggibile e più vicino a noi, anche se – avvertono Cervini e Scarlato – il lavoro di ricostruzione storiografica è appena cominciato.