In occasione dell’attesa uscita del volume Scritti per l’arte e per il cinema, che riunisce molti contributi del non dimenticato Pietro Bonfiglioli e ricostruisce la carriera di questo straordinario intellettuale votato alla causa civica e culturale, facciamo un regalo ai nostri lettori. Visto che – oltre alla presentazione del curatore Vittorio Boarini – al Lumière di Bologna verrà proiettato Il dio nero e il diavolo biondo di Glauber Rocha, offriamo in forma di “trailer” del libro la recensione del film che Bonfiglioli scrisse per le leggendarie schede del Roma d’Essai. A seguire…

Alcune citazioni serviranno a caratterizzare brevemente il cinema nôvo brasiliano, cioè l’attività di un gruppo di giovani registi che, iniziata intorno al Sessanta e sopravvissuta – come sembra – anche al regime militare grazie all’incredibile caos di contraddizioni locali e nazionali che è la società brasiliana, ha trovato la sua massima espressione e i suoi modelli in due film del 1964: Deus e o Diabo na terra do Sol di Glauber Rocha, intelligentemente scoperto e premiato dal Festival di Porretta nello stesso anno 1964, e I fucili (Os fuzis) di Ruy Guerra (un film, quest’ultimo, di straordinaria grandezza, che in Italia un pubblico impreparato e scarso, anche di intellettuali, ha recentemente liquidato con fredda sufficienza).

Ascoltiamo, appunto, Glauber Rocha che, insieme con Carlos Diegues, è anche il teorico più autorevole del gruppo: “La macchina da presa si apre sulla fame, sul sottosviluppo e sulla rivoluzione”. E ancora “Si tratta, se si vuole, di una posizione neoromantica, ma anche molto didattica. Quel che sottolinea bene Guevara è che la guerriglia non è un’avventura romantica ma un’epopea didattica… È un marxismo spogliato di tutto lo spirito vaticano del Cremlino”. Sono queste le premesse di una ‘estetica della violenza’ da collocarsi tra l’estraniazione critica di Brecht e la crudeltà di Artaud. Potremmo anche dire: cinema come guerriglia, dove il termine va inteso non tanto nel senso specifico del focolaio guerrigliero quanto piuttosto nel senso della esemplarità didattica ed epica. Il risultato è estremamente composito.

In un film come Il dio nero e il diavolo biondo l’intonazione epico-rapsodica da ballata popolare (la vicenda è cantata da un cantastorie cieco) si mescola al realismo ideologico di Ėjzenštejn (nel prologo che narra la rivolta del vaccaro Manuel e la sua fuga nel deserto del Sertao con la moglie Rosa); il naturalismo mistico e delirante delle folle miserabili che seguono sulle scalinate del Monte Santo il profeta negro Sebastiao coesiste con il violento drammatismo shakespeariano che spinge l’ultimo dei cangaçeiros, Corisco, a collocarsi in primo piano nel gran palcoscenico del deserto e a interrogarsi sul suo destino e quasi vocazione di solitudine e di morte.

Questo convulso impasto di gonfiezza barocca e folclorica, di imprecisione barbarica e di lucide sintesi improvvise, questo gusto greve delle sovrapposizioni simboliche e metaforiche, questa commistione dirompente di materiali culturali eterogenei si distende con pacatezza rapsodica nella storia del vaccaro Manuel, narrata in tre tempi di chiara evidenza didattica: il rifiuto di una società ingiusta attraverso un gesto di rivolta individuale, il rifiuto della soluzione mistica offerta alle masse popolari dai beatos, il rifiuto della soluzione anarchico-nichilista proposta dai cangaçeiros, come Lampiao e il suo luogotenente Corisco (ucciso nel 1939, anno in cui è collocata l’azione del film). Respinti i miti, Manuel libero corre con Rosa verso il mare, simbolo di quella forza di cui si fa profeta il morente Corisco: “Più forte è la potenza del popolo”. Nello stesso senso conclude brechtianamente la canzone popolare illustrata dal film: “Un mondo mal diviso / non può dar niente di buono, / perché la terra è / non di Dio, non del demonio”.

Il personaggio più simbolico, più ricco di prospettive e di sviluppi (tanto che diventerà il protagonista di un recentissimo film di Rocha) è Antonio das Mortes, uccisore di ‘beati’ e di banditi, pagato dai proprietari terrieri e dalla Chiesa. Nella sua coscienza ambigua e critica di killer sanguinario, che da una parte è al servizio della repressione, dall’altra è strumento e agente – nient’affatto cieco – della storia, il regista ha voluto rappresentare un correttivo alle possibili interpretazioni populiste del suo film. A Julio, il cantastorie, Antonio das Mortes si dichiara certo che un giorno la rivoluzione scoppierà e che essa non dovrà nulla né al dio nero né al diavolo biondo; per questo egli li uccide. Ma miete vittime anche fra il popolo, che Antonio disprezza anche se alla fine, quasi colpito dalle parole profetiche di Corisco morente, risparmierà Manuel e Rosa, ormai liberati per opera sua dal peso dei miti. Il significato di questa ambiguità si rivelerà solo nel nuovo film di Rocha, dove Antonio das Mortes rivolgerà la sua arma infallibile contro i suoi mandanti.

 

Pietro Bonfiglioli