In occasione dell’omaggio al noir americano degli anni Ottanta – declinazione di genere e di periodo che rischia di essere rubricata come mero passaggio di consegne nell’immaginario contemporaneo – offriamo un approfondimento su uno dei corpi indimenticabili del periodo: Kathleen Turner. Il suo Brivido caldo apre la rassegna.

Dopo averla rivista nei panni della principessa Leia, alcuni spettatori de Il risveglio della Forza infierirono sul presunto declino fisico della quasi sessantenne Carrie Fisher. La compianta attrice, cosciente del proprio posto nell’iconografia pop, silenziò gli idioti con poche parole: “il mio corpo non sarà invecchiato tanto bene quanto me» ma «bellezza e giovinezza sono qualità provvisorie”. Scontava, va detto, l’incessante somministrazione di psicofarmaci per combattere il disturbo bipolare. Un destino simile a quello di Kathleen Turner, magnifico giovane corpo oggi segnato dalle conseguenze di una malattia (in questo caso l’artrite reumatoide) e dall’alcolismo. Eppure quando Edward Albee le affidò, nel 2004, il ruolo di Martha nella ripresa del suo long seller Chi ha paura di Virginia Woolf? non lo fece solo per servirsi delle già morbide curve idonee allo sfiorito personaggio.

L’aveva vista nella versione teatrale de Il laureato, dove interpretava Mrs. Robinson, e la scelse per lo sguardo voluttuoso e l’appetito di una predatrice già stata a sua volta preda: le stesse caratteristiche che la resero un’icona. Bellezza e giovinezza saranno provvisorie, ma l’immagine cinematografica di Kathleen Turner si è eternata nel suo decennio di gloria.

Assieme a Jessica Lange, Debra Winger e Kim Basinger, Turner è forse colei che ha espresso con maggiore completezza il discorso sul corpo femminile degli anni Ottanta. A differenza di Lange, che ha capitalizzato il suo erotismo in un ruolo emblematico (Il postino suona sempre due volte), e Winger, istinto al servizio dell’intimismo proletario, il corpo di Turner, più sfuggente rispetto all’esplosiva Basinger, è l’avventura della sessualità.

Può incarnare uno sdoppiamento perverso (China Blue), liberare la sensualità frenata (Alla ricerca della pietra verde), sfaldarsi per tornare in un tempo altrimenti irraggiungibile (Peggy Sue si è sposata), diventare un cartoon che non può fare a meno della sua voce (Chi ha incastrato Roger Rabbit). E può giustificare il senso di un’intera vita, come nel suo abbagliante debutto, Brivido caldo.

Dove condivide la scena con William Hurt, altro catalizzatore delle ossessioni “fisiche” del decennio, un corpo che sperimenta su di sé gli stati di allucinazione, non placa il desiderio omosessuale ne Il bacio della donna ragno, si cristallizza in pura immagine televisiva in Dentro la notizia, mostra l’esperienza della droga ne Il grande freddo (dove peraltro c’è la veglia ad un cadavere sempre fuori campo, a parte nel dettaglio dei polsi).

L’esordiente alla regia Lawrence Kasdan capisce che il mondo ideale per i corpi nuovi di Turner e Hurt è il noir. Dopo lo slancio pornografico degli anni Settanta, Brivido caldo è uno di quei film che ha aiutato il cinema americano a riappropriarsi dell’erotismo, permettendo al noir di rigenerarsi nell’eterno conflitto tra ideali e desideri. Kasdan lo colloca in un luogo fuori dal tempo che esiste solo al cinema: la Florida dei primi anni Ottanta, con la sua urbanistica fumosa e piena di ombre, è connessa esteticamente alle città in cui sono ambientati i classici degli anni Quaranta. Il passato a cui si riferisce è quello del cinema: un inganno, che è d’altronde anche la chiave per sciogliere il giallo interno. Qui abitano i corpi di una generazione cinefila che si ritrova in un mondo perduto, il noir, seguendo la stella di una disillusa nostalgia.

L’avvocato traffichino Hurt appare per la prima volta di spalle, completamente nudo, mentre guarda un incendio in lontananza e si lamenta del caldo infernale. Poiché il titolo originale Body Heat allude proprio alla sintonia col calore climatico, è chiaro che la prima immagine di Turner in abito bianco impone a Hurt di verificare quanta purezza non ci sia in lei: «non dovresti portare quel corpo», le dice.

Con la voce roca di una novella Lauren Bacall, simile a Barbara Stanwyck de La fiamma del peccato, Turner porta Hurt nella sua villona alla Viale del tramonto, si sdoppia nel vetro della porta come gli specchi ne La signora di Shangai e le citazioni potrebbero proseguire. Ma se l’amore per l’immaginario noir si palesa ovunque, la novità è nella maratona di coiti dei due amanti, non più sfumati nelle fiamme ardenti dei camini come nei mélo di Douglas Sirk. Un sesso esposto senza timori ma che si esalta nei dettagli in cui il non-visibile sembra visibilissimo, laddove i protagonisti recitano molto con le mani, afferrando lenzuola durante l’orgasmo o organi genitali senza farli vedere. Si ha quasi l’impressione che l’unico vero motivo per cui i due vogliono uccidere il marito di lei sia l’esigenza di poter consumare in pace il loro desiderio.

I soldi sono in apparenza secondari nel progetto di morte; è l’amore fisico a dominare il progetto di morte e i due vi si rifugiano per appagare l’edonismo dei loro corpi tesi unicamente al godimento del presente. Il neo noir non ha più bisogno di pretesti, non occorre una polizza assicurativa o un’indagine della polizia per dare una svolta alla storia: basta che i due protagonisti s’incontrino nella loro vita segreta.

Se per Hurt, già frequentatore degli abissi, uccidere per amore è una definitiva catabasi, Turner è una dominatrice che uccide con l’amore. Quando deve distrarre il marito per dare modo all’amante di organizzare il delitto, ci convince di essere addirittura capace di ammazzarlo attraverso un rapporto sessuale. Ed è forse qui che dovremmo capire la doppiezza di questa mantide, che è anche l’ambiguità del genere: l’involucro di un corpo splendido che cela l’animo di una mantide in trappola, un indimenticabile diavolo bianco.

Lorenzo Ciofani