In vista della presentazione di mercoledì 20 ore 19, Cinefilia Ritrovata pubblica alcuni stralci inediti del volume di Roy Menarini (coordinatore di questo spazio), tra cui l’introduzione e parte del primo capitolo. Una forma di book-trailer che speriamo invogli i nostri lettori ad essere presenti, insieme all’autore e alla direttrice di collana Federica Muzzarelli, a sua volta storica della fotografia ed esperta d’arte. In quarta di copertina intanto: “Il corpo nel cinema offre un atlante in forma scritta delle possibilità di espressione che la settima arte ha offerto alla nostra esteriorità. Il corpo, in questi volume, viene interpretato come luogo di elaborazione e di espressione del sé e di influenza tra differenti stili di vita, e come campo di studi privilegiato per una estetica del film che tenga conto del modo in cui viviamo l’audiovisivo (attraverso gli occhi e le orecchie, per cominciare). Il linguaggio cinematografico – per sua stessa natura – scompone e ricompone il corpo attraverso la scala dei piani dell’inquadratura, e nella sua storia ha raccontato l’umano in tutte le sue potenzialità. Dalle metamorfosi della fantascienza ai traumi dell’horror, dalle catastrofi ridicole del comico alle malattie del melodramma, dalle passioni fisiche del genere erotico al realismo del cinema documentario, il corpo umano è in fondo il diario scritto della storia del cinema”. Segue.

È sorprendente che, nella ricca saggistica sul cinema, fino a questo momento non sia stato scritto un volume esplicitamente dedicato al corpo. Molti studi settoriali, certo; molte porzioni di teoria, molti saggi specifici, e spesso dei più lucidi; eppure, mancava un atlante del corpo nel cinema, una sitematizzazione completa. Questo volume ambisce a proporla, sia pure attraverso gli strumenti di un saggio agile, e pensato sia per la lettura autonoma sia per la divulgazione universitaria.

A convincermi dell’utilità del progetto, sono stati molti fattori. Sebbene il presente volume, infatti, si occupi principalmente della rappresentazione del corpo al cinema e delle conseguenze sulle pratiche del corpo nel rapporto simbolico che instauriamo con i film, vale la pena sottolineare la sua consonanza con alcuni approcci recenti. Non è un caso che siano usciti negli ultimi quindici anni, una semiotica del corpo (Figure del corpo di Jacques Fontanille), una sociologia del corpo (il volume omonimo di Paolo Borgna), una antropologia del corpo (Antropologia del corpo e modernità di David Le Breton), i volumi di “somaestetica” del filosofo pragmatista Richard Shusterman (come Coscienza del corpo), saggi di teoria del cinema centrati sul rapporto con il corpo (L’alieno e il pipistrello di Gianni Canova, The Body Vanishes a cura di Franco La Polla, Teoria del film di Thomas Elsaesser e Malte Hagener), saggi di ermeneutica (L’uso dei corpi di Giorgio Agamben), di biopolitica (Le persone e le cose di Roberto Esposito), di confronto tra cinema e pensiero (Corpo a corpo curato da Toni D’Angela), di fotografia (Corpo e figura umana nella fotografia di Elio Grazioli), di Moda (Black Modes – I linguaggi del corpo e della moda di Ugo Volli o Anatomia della moda di Hélène Blignaut, tra i tanti), di arte contemporanea (Il corpo nell’arte contemporanea di Sally O’Reilly), di iconografia letteraria (Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento di Marco Bazzocchi), di poesia (Corpo e poesia nel Novecento italiano di Niva Lorenzini,), miriadi di saggi sul corpo post-organico (Teresa Macrì), postumano (Rosi Braidotti e altri), tecnologico, gender, ideologico e così via, citando solo alcuni dei più letti. Tutto questo limitandoci a testi generali, perché dei particolari ci occuperemo durante la trattazione. Persino la letteratura non si è tirata indietro, come insegna il curioso e riuscito Storia di un corpo di Daniel Pennac.

E non parliamo poi delle recenti acquisizioni provenienti delle scienze cognitive, per cui tra neuroni-specchio e altre ricerche cominciano a emergere studiosi che si domandano se non sia il caso di ridimensionare le teorie linguistiche che per tanti anni hanno spiegato il senso dei fenomeni artistici, per privilegiare invece quelle esperienziali, fisiche, cognitive – una radicalizzazione del neo-cognitivismo in voga qualche tempo fa.

(…)

Ci sono almeno tre motivi per i quali la questione del corpo è strettamente connessa alla nascita del mezzo cinematografico. Il primo, e più ovvio, riguarda la sollecitazione dello sguardo, anche solo per il semplice fatto che il cinema implica almeno due sensi – vista e udito – attraverso i quali interagisce con le nostre emozioni. Arte e letteratura tradizionalmente intese ne implicano uno (la vista) mentre la musica ne implica un altro (l’udito). Le più recenti teorie provenienti dalle scienze cognitive, e introdotte nell’ambito delle scienze umane e dei film studies, tendono a riconsiderare la fruizione del film in termini di esperienza e a ridimensionare l’aspetto linguistico del film in favore di un’adesione alla nozione di coscienza incarnata (ovvero che siano le reazioni corporee a guidare la vita della mente di fronte a un’esperienza, anche artistica). I molti testi divulgativi che gli umanisti hanno potuto rielaborare[1] sembrano aver schiuso un ambito da troppo tempo irrigidito, e convinto molti studiosi che le basi dell’empatia dimostrata dallo spettatore nei confronti del film sia paragonabile a quella dell’intersoggettività nell’esperienza reale, garantita dagli ormai celebri neuroni-specchio[2]. Quello che vediamo sullo schermo, dunque, modella i nostri comportamenti e suscita una serie di reazioni mentali prima ancora che sociali e culturali (termini, questi ultimi, su cui ci in ogni caso intratterremo a lungo nel corso del libro).

Ecco che, dunque, il cinema delle origini non può né deve essere spiegato solamente in termini di innovazione tecnologica (paradigma della discontinuità) o come progressiva integrazione tecnica di precedenti serie culturali e abitudini percettive (paradigma della continuità),[3] ma anche come momento di incontro destinato, in quanto duplicato di mondo, a sollecitare una ricezione neurocognitiva complessa, simulata e al tempo stesso molto simile a quella reale. Ciò, con tutte le cautele del caso, porterebbe a superare anche la questione lungamente dibattuta dello “specifico” filmico – che cosa c’è di originale e unico nel film rispetto agli altri media – e a chiarire un po’ meglio perché il cinema tra fine Ottocento e inizio Novecento abbia posto le basi per il suo ruolo di “occhio del secolo”[4] e perché, per vari decenni se non fino a oggi, si possa dire che ha influenzato artisticamente e culturalmente la vita delle persone più di molti altri mezzi espressivi.

 

Il corpo visto (per la prima volta)

Il secondo motivo riguarda invece la rappresentazione diretta del corpo umano. La produzione delle origini è un grande archivio di iconografia del corpo. Anzi, le immagini in movimento del corpo umano, oltre che la riproduzione cinematografica dell’essere umano rivisto sullo schermo, furono le principali attrazioni per il pubblico di fine ‘800 e inizio ‘900. Non per questo, tuttavia, dobbiamo pensare a un cinema primitivo che si limita a restituire il reale – e dunque il corpo umano – nella sua percezione tradizionale. Anzi, il cinema – secondo un complesso schema di rottura delle convenzioni e contenimento delle spinte più dirompenti potenzialmente presenti nel nuovo mezzo – non di rado ha offerto un processo di scomposizione e ricomposizione del corpo umano rappresentato. Georges Méliès, per esempio, provenendo dal teatro di prestidigitazione e dai trucchi di scena, ha intravisto nel cinematografo un alleato potenziale per dare vita all’immaginazione più sfrenata, e disarticolare il corpo umano nei modi più fantasiosi. In L’Homme à la tête en caoutchouc (1902), Méliès mette in scena la propria stessa testa mentre si ingrandisce e rimpicciolisce. Nel più celebre Le Voyage dans la Lune, dello stesso anno, gli astronauti si ritrovano sul satellite terrestre aggrediti da indigeni (i Seleniti) che si muovono come ballerini e danzatori, mettendo in crisi la normalità borghese dei coloni. D’altra parte, proprio la Luna viene antropomorfizzata da Méliès – che pescava con grande libertà dall’illustrazione dell’epoca –, tanto che l’obice sparato dai terrestri la colpisce in un occhio. Il cinema era insomma il punto di arrivo di una cultura eminentemente visiva e ottica, destinata a modificare la percezione dello spazio e del tempo, nonché del corpo umano.[5]

E sebbene da anni la differenza tra Méliès (fantastico) e i fratelli Lumière (inventori del cinema e profondamente “realisti”) sia stata storiograficamente messa in discussione, quanto a iconografia del corpo le distanze andrebbero riconfermate. Tanto Méliès fin da subito intuiva nel nuovo mezzo le potenzialità per dare vita a configurazioni sorprendenti ed estensioni impensabili dei trucchi già provati nel suo teatro,[6] quanto i Lumière, inventori del cinematografo che portava il loro nome, esperivano per lo più la dimensione riproduttiva del mezzo. Gli operai che escono dalla fabbrica, i viaggiatori alla Gare de la Ciotat, il bebé che assume il suo pasto, i giocatori di carte sono figure sociali, famigliari, riprese nella loro quotidianità e sembrano a noi osservatori distanti niente più che tracce storiche di un mezzo alla ricerca della propria identità.

Il primordi del cinema hanno in seguito lasciato spazio a una istituzionalizzazione del linguaggio espressivo e a codici normativi di ripresa del corpo umano. Ben prima che le innovazioni tecniche finissero con l’ancorare sempre più il corpo a se stesso (a causa dell’emissione vocale introdotta dal cinema sonoro) “dal tipo di rappresentazione ‘primitivo’ del cinema delle origini a quello ‘istituzionale’ del cinema hollywoodiano si attua un processo di idealizzazione del corpo, attraverso un procedimento di selezione e combinazione che tende a ottenere un’identificazione completa dello spettatore con l’universo della rappresentazione…”.[7] Il corpo viene per così dire “ricomposto” dopo le disarticolazioni cui il cinema delle origini (anche per questo motivo valutato come più genuino da alcuni studiosi)[8] e Méliès lo avevano sottoposto. Non di meno, le possibilità del linguaggio cinematografico, formalizzate secondo codici e canoni che definiamo classici, vengono comunque esplorate. Da una parte, la porzione di corpo che viene ripresa dà vita a una scala di piani assai precisa, in senso grammaticale: il piano medio, il piano americano, il primo piano, e così via. Dall’altra, ognuna di queste figure – e specialmente il primo piano – assumono un’importanza fondamentale per la storia del cinema.[9]

Il volto umano si dà come l’espressione più intensa e il veicolo principale per le emozioni che vengono trasmesse dallo schermo allo spettatore. Non è un caso che il primo piano, come possibilità tecnica, susciti fin da subito battaglie estetiche, con tanto di detrattori (lo stravolgimento delle proporzioni reali del volto, l’ingigantimento delle facce) e sostenitori (il primissimo piano come luogo di espressione, poesia, paesaggio, bellezza).[10] Il primo piano illude di portare in superficie, grazie a sguardo, espressioni, atteggiamenti del volto,[11] tutto quello che si nasconde nella mente del personaggio, intervenendo nei momenti più emotivamente intensi del racconto filmico, o persino sopportando l’intero peso simbolico del film. In La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Theodor Dreyer, per esempio, il significato della sofferenza viene affidato in toto a questa scelta stilistica e alla straordinaria espressività dell’attrice che impersona la Pulzella d’Orléans, Renée Falconetti. Più in generale, il primo piano – anche all’interno di così grandi mutamenti nelle tecniche cinematografiche in oltre cent’anni di storia – ha mantenuto un’importanza sorprendente. Basti pensare al ruolo necessario che ricopre nella serialità e nelle soap opera, o alla forza che ancora attribuiscono al dettaglio del volto umano autori contemporanei, come Lars von Trier in Le onde del destino (1995) o Quentin Tarantino nel finale a sorpresa di Bastardi senza gloria (2009).

Ovviamente, tutte le novità portate dal nuovo mezzo hanno stimolato una importante letteratura, molto spesso concentrata proprio sull’idea di corpo. Pirandello, nel romanzo Si gira (1915, poi ristampato come Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nel 1925), lamentava attraverso il suo personaggio la perdita di senso nel corpo rappresentato, spossessato, evanescente, insomma una “illusione meccanica”. Più profonda e stratificata (del resto non interessata a una dimensione narrativa) fu invece la riflessione di Bela Balász, che vedeva nel cinema una liberazione, o almeno una ricomposizione, del corpo e dello spirito dopo secoli di repressione.[12]

 

[1] S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, Raffaello Cortina, Milano 2009; L. Pizzo Russo, So quel che senti. Neuroni specchio, arte ed empatia, ETS, Pisa 2009.

[2] Tra i numerosi studi che stanno emergendo in questi anni, citiamo tra gli altri L. Malavasi, Racconti di corpi. Cinema, film, spettatori, Kaplan, Torino 2009; A. D‘Aloia, La vertigine e il volo. L’esperienza filmica fra estetica e neuroscienze cognitive, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2013. Interessanti applicazioni del nuovo approccio si trovano per esempio in M. Comand, I personaggi dei film, Marsilio, Venezia 2012. Allargando ai media, si veda R. Eugeni, Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza, Carocci, Roma 2010. Per una sintetica ma eccellente ricostruzione del dibattito teorico, A. Minuz, L’immaginazione del corpo, l’incorporazione dell’esperienza. Gli studi sul cinema e le ricerche sui «neuroni-specchio», in “Imago. Studi di cinema e media”, n. 2, 2010, pp. 199-211.    

[3] A. Gaudreault, Cinema delle origini, o della “cinematografia-attrazione”, Il Castoro, Milano 2004.

[4] F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005.

[5] J. Aumont (a cura di), L’Invention de la figure humaine. Le cinéma: l’humain, l’inhumain, Cinémathèque Française, Paris 1995.

[6] A. Costa, La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, CLUEB, Bologna 1994.

[7] A. Costa, R. Menarini, L’immagine del corpo nei nuovi media, in A. Alippi, a cura di, L’universo del corpo, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma, 1998, p. 125.

[8] N. Burch, Prassi del cinema, Pratiche Editrice, Parma 1990.

[9] Dobbiamo, per dovere di sintesi, fingere di ignorare gli stretti rapporti che intercorrono nei primi tempi tra cinema e fotografia, e dare per acquisite alcune questioni sulle origini e sullo sviluppo di questo differente mezzo espressivo, rimandando almeno a E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1998.

[10] L. Delluc, Fotogénie, Maurice de Brunoff, Paris 1920, ora in Écrits cinématographiques, vol. I, Cinémathèque Française, Paris 1985.

[11] “Il volto è quella lastra nervosa porta-organi che ha sacrificato l’essenziale della propria mobilità globale, e che raccoglie o esprime apertamente ogni specie di piccoli movimenti locali che il resto del corpo tiene normalmente nascosti”, afferma Gilles Deleuze in Immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, p. 110.

[12] B. Balász, L’uomo visibile, a cura di L. Quaresima, Lindau, Torino 2008.