Sono passati 53 anni dall’uscita nelle sale di Salvatore Giuliano, il film divenuto simbolo del cinema di Francesco Rosi. Nel mese di Febbraio la Cineteca di Bologna dedica a questo regista una ricchissima rassegna, riportando in sala quasi tutti i suoi film, due dei quali in versione restaurata: Salvatore Giuliano e Le mani sulla città lucidissimi atti d’accusa e consapevoli testimonianze di alcune delle pagine più buie della storia italiana.

Sin dalle prime inquadrature di Salvatore Giuliano realizziamo di essere di fronte a un modo di fare cinema decisamente fuori dagli schemi convenzionali. I campi lunghissimi, le riprese dall’alto, una voce fuori campo che racconta lo svolgimento dei fatti. E ancora, attori che non sono realmente attori, una narrazione frammentaria e distaccata, ma soprattutto: il bandito che dà il nome al film non si vede praticamente mai. Una presenza invisibile ma terribilmente ingombrante. Cinema? Documentario? Reportage giornalistico? Rosi è in grado di sfondare le barriere che separano questi generi, catapultando lo spettatore in una Sicilia del secondo dopoguerra alle prese con le lotte separatiste. Leonardo Sciascia ne La corda pazza, una raccolta di saggi in cui tratta la sua idea di “sicilitudine“, afferma che nessun film era stato in grado di rappresentare la vera sicilianità come Salvatore Giuliano. Rosi, che per girare il film si è recato negli stessi luoghi in cui sono realmente avvenuti i fatti narrati (Montelepre), utilizzando abitanti locali al posto di attori professionisti (a parte Wolff e Randone), attua una frantumazione dei criteri stilistici che fino a quel momento avevano caratterizzato la finzione cinematografica. Utilizzando uno schema narrativo totalmente originale il regista si avventura con la macchina da presa in una vicenda in cui l’intreccio tra politica, mafia e interessi economici imbratta ripetutamente di sangue le aride terre sicule, dove vigono arretratezza e omertà. Salvatore Giuliano non rappresenta solo un elemento di rottura nel panorama cinematografico italiano, ma sancisce l’affermarsi della personalissima poetica di Rosi, in cui narrazione e inchiesta andranno sempre di pari passo.

“Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. […] Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita.”[1]

Queste parole di Gian Maria Volonté sono fortemente emblematiche del suo rapporto con il cinema e dei suoi criteri di selezione dei film da interpretare. È stato definito “un attore contro”, proprio per l’implacabile passione che lo portava a scegliere ruoli scomodi, in cui l’impegno sociale e politico fosse sempre in primo piano. Non è un caso quindi che Volonté abbia scelto di girare con Rosi ben cinque film, raccontando storie di denuncia in cui dato storico e messa in scena si fondono perfettamente. Basta pensare a Il caso Mattei, in cui Volonté impersona il presidente dell’ENI Enrico Mattei, morto nel 1962 in circostanze sospette in un incidente aereo. Anche qui Rosi indaga, pone quesiti, denuncia. La struttura del film riprende il montaggio frammentario di Salvatore Giuliano, andando a creare una sorta di mosaico fatto di inserti televisivi, cronaca, ricostruzioni documentarie, interventi dello stesso Rosi. Un insieme di fonti diverse per cercare di gettare luce su un’altra pagina oscura della storia Italiana, questa volta legata al potere nel mondo imprenditoriale. Uno stile ibrido, impossibile da catalogare, che ha anticipato le caratteristiche del reportage televisivo e che testimonia la passione civile presente in ogni opera di Rosi.

Il suo “realismo epico”, come lo ha definito Moravia, rimane ancora oggi di grande impatto, indice di una modernità e di un’innovazione insite nei suoi lavori che non risentono dello scorrere del tempo. È interessante riflettere sulla possibilità di fare oggi un cinema come quello di Rosi. Un cinema coraggioso capace di unire arte e impegno civile, con una coerenza e una lucidità propria di pochissimi altri. Del resto, per Rosi dirigere film non era un semplice mestiere, ma una presa di coscienza dettata da un implacabile spirito critico, come emerge da questa sua dichiarazione di pochi anni fa: Il nostro è un mestiere particolare. Se lo fai con passione non te ne puoi liberare. Ti rimane dentro, non c’è niente da fare”.[2]

 

Barbara Monti

[1] Franco Montini e Piero Spila, a cura di,Un attore contro. Gian Maria Volonté. I film e le testimonianze, BUR, Roma 1984.

[2] Francesco Rosi, Giuseppe Tornatore, Io lo chiamo Cinematografo, Mondadori, Milano 2012.